giovedì 29 dicembre 2011

AX 309

Nel mio repertorio c'è stata anche una piccola incursione nella fantascienza. Con "Ax 309 alla conquista del mondo" mi sono divertito a mischiare nel frullatore ingredienti orwelliani, bradburiani e calviniani. Spero sia uscito un frappè digeribile...

AX 309 ALLA CONQUISTA DEL MONDO

Nella galassia di Dertan 69, tra i pianeti del sistema kalare Om di Stikhwq 41 e Hxwlq 27, a 57000 radiofotometri da Bulbar 7, gravita Ax 309, il più grande pianeta satellite di Neolt Vzwesh 12. Qui, su una superficie di 5000 radiofotometri biquadrati vive una popolazione di 17 milioni di abitanti, né uno di più né uno di meno. Ciò avviene grazie alla politica di controllo demografico esercitata da Kexo Sa(?) Baba (il megacomputer-governo di Ax 309), politica che elimina completamente i rischi di sovrappopolazione delle aree abitabili, ovvero un millesimo dell’intera superficie planetaria essendo questa quasi interamente ricoperta dai due grandi oceani: il Mare di Plawfkjugyr e l’Oceano Enolico. La stabilità demografica viene garantita da invisibili microchip – detti placche endocardiache - che vengono inseriti nel cuore di tutti gli axissi, indiscriminatamente, il giorno stesso in cui vengono alla luce e che al raggiungimento del decimo anno kalare rilasciano una potente scarica elettrica (inviata dal Centro Dati Anagrafici di Kexo Sa(?) Baba) la quale uccide sul colpo l’anziano di turno. Non c’è alcuna possibilità di procrastinare tale data, ma qualche axisso temerario ha osato insinuare – arrischiando la sua stessa incolumità – che qualche ricco e facoltoso personaggio molto vicino all’entourage di Kexo Sa(?) Baba abbia abbondantemente superato i cinquanta anni kalari.
    Anche chi non è in grado di produrre un utile o arreca danno alla collettività viene liquidato attraverso la placca endocardiaca. Non è un caso se su Ax 309 non esistono disoccupati, handicappati fisici e mentali, ladri, assassini; non esistono attività illegali quali lo spaccio di droga, armi o altro e la prostituzione è stata abolita nel 198 d.b. (dopo baba) con il decreto sull’igiene pubblica. All’interno della società axissa, le tensioni, i focolai di rivolta, l’opposizione al totalitarismo del regime del megacomputer-governo sono assolutamente inesistenti e le guerre sono solo un remoto ricordo dei tempi prima della messianica comparsa di Kexo Sa(?) Baba.
    Il sesso è una pratica vietata se non a livello virtuale ed è esercitato in appositi luoghi detti Sexnet, dove axissi maschi e femmine hanno rapporti copulatori “protetti” dai libidrons, i computers addetti a tali mansioni. Il maschio axisso da quando il regime babaro è al potere (cioè da più di due milioni di millenni protokalari) non ha più avuto veri e propri rapporti sessuali con l’altro sesso e le axisse  sono frigide per più di due terzi, avendo come unica possibilità orgasmica l’uso del cybervibrator, una sorta di elettrostimolatore mentale. Rimangono incinte solo tramite inseminazione artificiale, esercitata nel C.C.AX., il Centro Criobiologico della capitale Luxar Peyota, unico produttore intergalattico del Supersperma MMM Vergud. L’omosessualità è una pratica illecita e punita con la morte al pari di chi viene accusato di “presunta attività masturbatoria”.
    Ho già riferito che non esiste spaccio di droga, ma Kexo Sa(?) Baba una volta alla decimana elargisce agli axissi una dose dell’unico stupefacente legalizzato: la Lotteria Planetaria. Il bulbarqwak – giorno della decimana compreso tra la dertanhyxq e l’om astrale – gli abitanti di Ax 309 acquistano una drugcard (in axisso yxyxwowq) con i numeri della lotteria e riunendosi in grandi saloni detti rinkoholl, si inebriano di illusioni psichedeliche nell’attesa che il cervellone elettronico Kama Pii(!) Ry (della famiglia di Kexo Sa(?) Baba) estragga i numeri vincenti; poi, terminato l’effetto stupefacente, axissi e axisse (n.b: su Ax 309, non esiste il sostantivo o l’aggettivo al femminile di axisso: anche se io lo adopero è corretto solo il termine axisso maschio e axisso femmina) tornano ad immergersi nella depressione delle loro tristi vite predeterminate.
    L’unico sport (zswrf) praticato è il pusshvuul, una specie di gioco del calcio e del basket mixati insieme; c’è anche un campionato mondiale di pusshvuul, a diciotto squadre e con una particolarità: per non creare polemiche, risvegliare vecchi campanilismi sopiti o riscaldare gli animi assonnati degli axissi, tutte le partite sono obbligate a terminare in parità cosicché non ci sono mai né vincitori né vinti.
    Non esiste alcuna forma d’arte. Le città (oltre a Luxar Peyota le metropoli più importanti sono Saqw e Bjok Luz) appaiono come immensi blocchi di cemento senza traccia di vegetazione. Nessuno vive fuori dalle città e gli abitanti di questi asettici agglomerati urbani non hanno altro svago, all’infuori del lavoro, che rintanarsi in appartamenti bunker (divisi in appartamenti maschili e appartamenti femminili) a guardare gli unici programmi televisivi che Kexo Sa(?) Baba manda in onda: monotoni talk show propagandistici che annientano la volontà dello spettatore con potenti stimolazioni subliminali.
    Non è un caso se tra tutti i pianeti che compongono la galassia di Dertan 69 Ax 309 è quello con la più alta percentuale di suicidi. L’aspirante suicida attua l’azione mortale mediante implosione cerebrale, una particolare caratteristica del metabolismo axisso: grazie ad essa, quando si desidera porre fine alla propria esistenza, il cervello invia un input al cuore centrale (gli axissi hanno un cuore centrale e due periferici) il quale fa cessare le pulsazioni anche degli altri due cuori; ciò si verifica nel giro di pochi secondi entro i quali all’interno della scatola cranica scatta una reazione a catena che porta ad un totale sfaldamento neuronico. Si forma così una densa poltiglia cerebrale che verrà successivamente raccolta dai parenti del defunto e offerta in dono a Kexo Sa(?) Baba per alimentare le sue funzioni vitali.
    Nelle varie contee-stato che formano la geografia del pianeta satellite di Neolt Vzwesh 12, l’ordine pubblico è mantenuto senza grossi sforzi e Kexo Sa(?) Baba ha un esercito personale di 2000 axissi addestrati e pronti a tutto per proteggerlo da eventuali – ma mai verificatisi – attentati.
Il livello tecnologico esistente è assai elevato, soprattutto in campo militare e nella ricerca spaziale, tanto che sofisticatissime astronavi (dette ljkxas) esplorano da diversi anni kalari le galassie più remote.



Kexo Sa(?) Baba si stava nutrendo con la poltiglia cerebrale di alcuni suicidi quando venne interrotto dall’improvvisa apparizione di Sox*Yuff  e Ru(:)Kay, gerarchi molto influenti all’interno della dittatura esercitata dal megacomputer-governo.
    “Divino Baba” disse Sox*Yuff, “siamo venuti a informarti del ritorno della ljkxas Quasar 7 dalla missione spaziale 12564 per la scoperta di nuovi mondi da colonizzare.”
    “Sì, Divino” intervenne Ru(:)Kay, “il comandante HaHe la attende qui fuori: è ansioso di incontrarla. Dice di aver scoperto un pianeta chiamato Terra, ottimo obiettivo – a parer suo – per le mire espansionistiche di Ax 309.”
    “?….!..!!..**??/(!)::..” tagliò corto Kexo Sa(?) Baba, che tradotto dal codice informatico axisso significa: “Che aspettate? Fatelo accomodare!”
    Il comandante HaHe entrò trionfante nella grande sala controllo dalla quale il megacomputer-governo sorvegliava e dirigeva l’intero pianeta.
    “**Xy..?!?,)!…:HaHe.” (“Mi dica tutto comandante HaHe.”)
    “Divino Baba” proclamò HaHe, “la missione spaziale 12564 è stata portata a termine con esiti positivi e quasi insperati. Mai avremmo pensato di scoprire un pianeta chiamato Terra dai suoi abitanti talmente arretrato da poter essere invaso e sottomesso senza pericolo alcuno per noi axissi. Sono esseri arretrati i terrestri ed hanno sistemi di governo e società per molti versi simili al nostro; li si può forse paragonare agli axissi prebabari di due milioni di millenni protokalari fa. Ho provato – se mi consente una constatazione personale – una strana sensazione nello spiare gli esseri umani (la razza più evoluta della fauna terrestre): mi è parso che noi axissi fossimo già stati su quel pianeta o che derivassimo da una razza infinitamente più evoluta di uomini nata sulla Terra.”
    “Yxx/..:!?;?!,,..:?!!!” interruppe Kexo Sa(?) Baba. Gli aveva ordinato di partire immediatamente con un seguito di trenta ljkxas da guerra. Non c’era tempo da perdere; altri esseri viventi di altri pianeti avrebbero potuto conquistare la terra prima di Ax 309.
    HaHe partì ma quando dopo 12000 Hj+ (anni monokalari) arrivò sulla Terra ebbe la sgradita sorpresa di notare che l’intero orbe terracqueo era già stato colonizzato. Senza neppure rischiare di perdere ljkxas in battaglia fece ritorno alla base. Quando si ritrovò a rapporto dal Divino Baba, HaHe non seppe spiegare esattamente chi fossero gli extraterrestri che li avevano anticipati. Disse solo che laggiù, in un tempo che i terrestri misurano indicandolo come “Ventunesimo secolo”, gli uomini hanno lasciato il posto ad umanoidi del tutto simili agli axissi.
    Kexo Sa(?) Baba commentò così: “Faah pipiacerr… re ke illo nostrro sixtemma dii vitta ffunnscioni ank sup alltros monds!”.
    Qualche temerario osò insinuare che anche nel megacomputer-governo qualcosa stava cambiando.

MOSCHE

Datato 2004, questo brevissimo racconto lo scrissi di ritorno da una poco esaltante esperienza di animatore turistico (sic) nel Salento. Lo ripropongo qui rivisto e corretto.


MOSCHE 

Laura si stava godendo una tiepida giornata di fine maggio sotto il sole, nella sua villetta al mare di San Cataldo, a pochi chilometri da Lecce. Si abbronzava in topless, esibendo un corpo sinuoso e particolarmente eccitante ai pochi passanti che avessero più o meno casualmente buttato lo sguardo oltre le sbarre di ferro del cancello che dava sul giardino.
    Era venerdì pomeriggio e Laura rilassava le sue grazie nell’attesa che venisse sera. Aveva infatti organizzato un party tra amici, lì nella villetta acquistata pochi anni addietro dal padre, personaggio legato ad ambienti malavitosi ma dalla facciata più che rispettabile, sindaco di Lecce da due mandati.
    Per quella sera erano attesi Corinna, Fulvio, Mario, Manuele, Francesca, Cosimo, Antonio e Piero, il ragazzo di Laura. Piero sarebbe arrivato a momenti, portando con sé una scorta di cocaina tale da ricoprire di dune l’intero giardino, quel giardino in cui ora la ragazza giaceva supina e sorridente.
    Ad un tratto Laura sentì un formicolio sul capezzolo destro: c’era una mosca che sgambettava allegramente. La scacciò con la mano, ma dopo pochi istanti tornò a posizionarsi nello stesso punto. La ragazza ripeté il gesto e la mosca volò via andando a posarsi sulla coscia sinistra. Con un impercettibile movimento di gamba la fece volar via nuovamente. L’importuna mosca continuò a tormentarla per diversi minuti, fino a quando, esasperata, decise di rientrare in casa a fumare una sigaretta di marijuana.
    Quando ritornò alla sdraio le mosche erano almeno cinque. Una le si posò vicino all’ombelico e quando Laura alzò la testa per guardarla le parve che quel minuscolo insetto la stesse fissando divertito. Pensò che la marijuana stava distorcendo le percezioni. Chiuse gli occhi. Quando li riaprì c’erano cinque mosche che suggevano avidamente attaccate al capezzolo destro e altre sette o otto a quello sinistro. Un piccolo sciame svolazzava e si posava a turno sulla zona inguinale. Spaventata, Laura si alzò in piedi sparpagliando il nugolo di ditteri.
    “Che brutte allucinazioni mi dà sta canna” disse ad alta voce tornando a rifugiarsi in casa.
    Bevve un sorso d’acqua dal rubinetto, si sciacquò la faccia e tornò in giardino. Di mosche pareva non esserci più traccia, così la giovane si coricò di nuovo nell’attesa di veder comparire Piero.
    Trascorsero alcuni minuti e le mosche tornarono all’assalto. Ora erano almeno una trentina che sparse su tutto il corpo le succhiavano il velo di sudore. Laura si persuase che non era un’allucinazione e scappò in casa con l’intenzione di rimanerci, ma le mosche la seguirono. Per scacciarle fece un movimento scoordinato e andò ad inciampare nel tappeto indiano sbattendo la testa sullo spigolo del tavolino. Svenne.
    Mezz’ora più tardi Piero suonò al campanello. Vedendo la porta dell’ingresso aperta e Laura che non rispondeva scavalcò le inferiate ed entrò. La ragazza era distesa sul tappeto completamente nuda, le mutande appallottolate in un angolo della sala. Piero le si avvicinò e le tastò il polso: era morta.
    Il giorno dopo i giornali locali e nazionali, nonché i notiziari televisivi annunciarono che una ragazza della Lecce bene era stata violentata e uccisa nella sua villetta di San Cataldo. I violentatori, che non avevano lasciato traccia alcuna, dovevano essere almeno una quindicina.
    “Forse si tratta di una vendetta nei confronti del padre, sindaco di Lecce. E’ probabile che la Sacra Corona Unita gli abbia voluto far pagare la sua cristallina condotta di amministratore locale” disse il conduttore di un tg nazionale, mentre una mosca burlona gli si infilava in un orecchio facendogli compiere spassosissime evoluzioni in diretta.

sabato 24 dicembre 2011

SBRONZE ROAD

Non posso nasconderlo: questo racconto è fortemente influenzato dalla lettura di "Paura e disgusto a Las Vegas", il libro di Hunter S. Thompson da cui è tratto il forse più noto film con Johnny Depp e Benicio Del Toro. All'epoca, quando lo scrissi, provavo anche una forte attrazione per la beat generation e una certa cultura americana; se a questo aggiungiamo che vivevo un periodo di grande irrequietezza (con annessa un'estrema voglia di fuga) e non disdegnavo l'assunzione di qualche droghetta, ecco che salta fuori il polpettone che potete leggere qui di seguito. 


SBRONZE ROAD

 Sdraiato sul letto, giocherellavo con la Magnum Smith & Wesson comprata al mercato nero l’altr’anno, convinto che il confine tra la vita e la morte fosse una linea sottile che in quel momento passava attraverso la canna di una pistola. Era già successo altre volte che mi puntassi quel freddo tubo d’acciaio alla tempia e in più di un’occasione solo una forza misteriosa – che non era di certo l’attaccamento alla vita – mi aveva fatto desistere dal concretare quell’ultimo, definitivo clic.
    Squillò il telefono mentre con la Magnum stavo mirando al poster con il volto di un Timothy Leary devastato dalla vecchiaia e dall’lsd appesa al muro di fronte a me.
    “Bud! Ho fatto tutto: prenotazione volo, biglietti, un itinerario approssimativo… vai che tra poco si parte!” mi riferì dall’altro capo del filo Weiser.
    Dopo anni di duro lavoro senza via d’uscita alla “Melotti Metalmeccanica” , il coast to coast programmato negli States  era sicuramente tutt’altra cosa rispetto al clic finale spesso fantasticato; valeva proprio la pena spendere ogni risorsa economica, fisica e mentale prima di giungere ad una conscia e affascinante ripartenza.
    Io e Weiser abbiamo lavorato nella stessa lurida fabbrica per più di dieci anni e nel tempo ci siamo legati in uno strano rapporto simbiotico, a tratti ambiguo agli occhi degli altri colleghi e amici. Quando gli proposi l’idea del viaggio on the road negli USA ci bastò uno sguardo per intenderci sul meraviglioso epilogo che avrebbero avuto queste ferie. Non è facile da spiegare (e neanche ci tengo) ma io e il mio compagno AVEVAMO CAPITO.
    Siamo così partiti da Milano destinazione New York. Giunti nella Grande Mela ci siamo imbarcati su un volo per Los Angeles: volevamo compiere l’attraversata da ovest a est, facendo prima qualche fermata nei luoghi e nelle città della California che mi avevano da sempre incuriosito per essere stati fonte di ispirazione di grandi autori del passato come Fante, Henry Miller, Bukowski, Kerouac: Bunker hill, Big Sur, San Francisco furono alcune tappe.
    Percorremmo le pionieristiche strade americane un po’ in autostop, un po’ in Greyhound e un po’ in treno; noleggiammo anche un paio di automobili e delle moto. Viaggiammo per l’immenso sogno americano attraverso Salt Lake City, Denver, Des Moines, Chicago, Cleveland, fino a Nuova York. Impiegammo un mese per fare tutta quella strada, sostando a volte in squallidi motel, a volte in lussuosi alberghi, o fermandoci in certe occasioni a passare le notti all’addiaccio; finché non siamo giunti al grande giorno, oggi!
    Prima di partire da San Francisco avevamo fatto una scorta di birra, vino e whisky non indifferente e avevamo speso il totale di ben tre stipendi a testa della “Melotti Metalmeccanica” per acquistare cocaina, lsd, funghi allucinogeni, marijuana, extasy, popper ed eroina.
    “Grazie Hunter Thompson!” gridai al cielo prima di chiudere tutto quel ben di dio in una insospettabile sacca da turista italiano itinerante.
    Abbiamo provato emozioni ed esperienze nuove in quest’ultimo mese. Ad Austin, nel Nevada, facemmo un’incredibile orgia con dieci prostitute in una piccola pensioncina caratteristica degli Anni Cinquanta; a Davenport, al confine tra Iowa e Illinois, osammo l’adrenalinica sensazione di rapinare un minuscolo supermercato. Per l’occasione avevamo comprato passamontagna e pistole giocattolo e tutto filò liscio. Regalammo poi i novecento dollari del bottino ad alcuni barboni di Chicago.
    Sempre a Chicago rischiammo di finire anzitempo la nostra avventura. Sulle rive del lago Michigan io e Weiser stavamo passeggiando tranquillamente; il problema era che eravamo completamente nudi, nonché strasaturi di alcol. Passammo un’intera giornata in carcere, poi, un ufficiale di polizia magnanimo ci rilasciò, pensando forse che eravamo due semplici stupidotti italiani goliardici.
    A Cleveland compimmo la pazzia più grossa di tutto il viaggio. Ci imbattemmo qui in una ben organizzata manifestazione del Ku Klux Klan. Non c’erano molti partecipanti, ma il servizio d’ordine era imponente. Mischiati tra il folto gruppo di contestatori antirazzisti, assai più consistente di quello dei simpatizzanti xenofobi, lanciammo due bottiglie molotov, una delle quali centrò in pieno viso il guru del KKK ustionandolo gravemente. Dal parapiglia che scaturì conseguentemente, riuscimmo a defilarci senza problemi.
    In una lugubre cittadina della Pennsylvania, il cui nome ora mi sfugge, esaurimmo la scorta di droghe. Ci trovavamo in un desolato motel e Weiser sembrava ridotto proprio male. Durante la notte si era svegliato in preda al panico: aveva assoluto bisogno di eroina ma l’ultima pera me l’ero fatta io qualche ora prima, così uscì di casa e rientrò due ore più tardi insieme ad una prostituta di colore e con una nuova carica di ero nelle vene. Fottemmo la ragazza uno alla volta, dopodiché la liquidammo con il triplo di denaro che ci aveva chiesto per la prestazione. Ci ringraziò con un pompino extra.


Questa sera, la sera del trenta agosto, siamo giunti alla meta. Siamo a New York. Abbiamo affittato la suite più lussuosa di un noto hotel della città e non appena siamo entrati nella stanza 2025 io e Weiser ci siamo guardati negli occhi.
    “Ci siamo” ho detto io con voce strozzata dall’emozione.
    “E’ stato bellissimo Bud!” è intervenuto l’amico, “ABBIAMO CAPITO, non è vero?”
    “Sì Weiser. E’ ora di festeggiare. Siamo alla FINE.”
    Ci siamo scolati le tre birre rimasteci e l’ultima bottiglia di whisky lasciandoci blandire dal tramonto che sfumava i colori come in una cartolina e si apprestava a mischiare ad esso due anime finalmente emancipate dal dominio della Materia. Weiser mi ha preso le mani e mi ha baciato. Abbiamo fatto l’amore una, due, tre, quattro volte. Mentre dorme qui accanto di un sonno rilassato ho deciso di buttar giù queste righe; per chi o per cosa non lo so, però dovevo farlo.
    L’ho svegliato; fuori già comincia ad albeggiare. Ci siamo rivestiti, ho messo in tasca questi fogli e ora saliremo sul tetto dell’edificio, al ventesimo piano.


Prima di far calare il sipario vorrei solo dire agli amici, ai conoscenti, a chi rimane e leggerà il resoconto del Grande Epilogo, che mentre mano nella mano stiamo osservando i minuscoli uomini che da poco svegli si stanno accingendo ad iniziare, laggiù, una nuova giornata nel mondo dei vivi, Bud e Weiser si stanno sbellicando dalle risate come due pazzi. Ormai come due angeli.


giovedì 22 dicembre 2011

LA LEGGENDA DI PETOMAN

Continuo a rileggere i miei vecchi racconti per ri-postarli su questo nuovo blog e mi rendo conto di quanto siano lontani dall'uomo e dallo scrittore (stilisticamente parlando) che sono ora. Mi era venuta quasi voglia di lasciar perdere e tenere quegli scritti solo nell'archivio del mio pc e nel cassetto della scrivania, poi mi sono detto che in fondo quelle storie (che vanno più o meno dalla fine degli anni Novanta alla metà del primo decennio del Duemila) rappresentano un diario del mio percorso di maturazione letteraria nonché spirituale. Anche se molti di essi non mi piacciono e non mi appartengono più, li lascio ai posteri per le loro "sentenze" se mai un giorno qualcuno si interesserà del Dottore.


LA LEGGENDA DI PETOMAN

Era un tipo strano Corto Cometa, uno di quei personaggi che non hanno nulla a che fare con questo mondo pieno di regole, tabù e clichè. Non era un ragazzo cattivo, ma possedeva quella schiettezza capace di lasciarti secco tanto era genuina. Non si può certo dire che fosse bello, però, forte di un carisma e di un fascino ipnotici, riusciva sempre ad accalappiarsi le ragazze più carine della scuola. Viveva a Ferrara e frequentava con discreti risultati un liceo linguistico della città estense; considerava la scuola come una quasi inutile ma divertente perdita di tempo e trascorreva le ore libere con quello che riteneva il suo unico vizio privo di effetti collaterali: la lettura. Amava leggere qualsiasi genere, dal romanzo classico a quello giallo, dal saggio di psicologia al racconto agiografico, e ogni tanto si dilettava anche nello scrivere poesie. D’altro canto, i suoi vizi dagli effetti collaterali, come lui stesso li definiva, erano diversi e tutti certamente poco salubri dal punto di vista fisico: fumava due pacchetti di Marlboro al giorno, beveva birra in quantità industriali e non disdegnava neppure le droghe. I suoi coetanei guardavano Corto con un misto di ammirazione e invidia; i suoi atteggiamenti, le sue “imprese” e le innumerevoli stravaganze lo avevano assurto agli occhi della classe (e non solo) a Idolo Cittadino. Si racconta che a quindici anni si fosse scopato la professoressa di Inglese e quella di Francese nello stesso giorno, lui, la Stella Cometa (come lo avevano soprannominato molti suoi compagni), amante del piercing e dei tatuaggi, si era fatto incidere – appena tredicenne – le parole “La risposta soffia nel vento” sull’avambraccio sinistro. Non confidò mai a nessuno cosa volesse dire quella frase, ma gli avvenimenti che seguirono nella sua vita trovarono in quella “risposta” una clamorosa profezia. Era ben conscio il Cometa della stima che nutrivano nei suoi confronti amici e meno amici; quel paffuto ragazzino dalla battuta sempre pronta sapeva mostrarsi in pubblico con grande sicurezza e proprietà di linguaggio. Chi lo conosceva bene affermava, non senza un filo di retorica, che Corto “non aveva paura neanche del diavolo”, ma questa era solo apparenza perché il giovane due grosse fobie le aveva: una era la paura di diventare vecchio e di perdere il rispetto della gente; l’altra era il terrore di morire, morire senza avere trovato… la risposta.
    Fu verso i diciotto anni che la sua vita ebbe una drastica svolta. Già da un po’ di tempo Corto veniva sempre più gradualmente emarginato dagli amici  per via della sua troppo marcata diversità. Certo, finchè era stato l’unico a possedere una personalità ben definita, anche se molto bizzarra e controcorrente, era stimato e visto da tutti come un eroe, negativamente trasgressivo ma pur sempre un eroe. Ora che una certa personalità “di massa” l’avevano assemblata anche i suoi coetanei, Corto fu vittima di discriminazioni continue, venendo escluso da ambienti e situazioni che lo avevano visto incontrastato protagonista per molto tempo. Di lampante in questo processo di formazione caratteriale c’è che la generazione alla quale appartenevano gli amici del Cometa erano stata indottrinata e ammorbata dalle influenze di famiglie discendenti da una razza particolare: la razza dei benpensanti.
    Nonostante ci tenesse a mostrarsi in pubblico come un ragazzo dal carattere solido e tetragono agli assalti  alla sua sensibilità, questa estromissione dalla società lo stroncò. Solo, poco stimato, senza più un solo amico con il quale parlare, incompreso da genitori mediocri e bigotti, finito l’ultimo anno di liceo si gettò a capofitto nell’alcol. Divenne capace di scolarsi in un giorno – lui che aveva comunque avuto trascorsi dionisiaci già dai dodici anni – ben sei confezioni da sei di birra e anche quando era ubriaco marcio non vomitava mai. Nel giro di due anni il suo stomaco assunse proporzioni abnormi; Cometa assomigliava sempre più a un fenomeno da baraccone senza avere ancora compiuto vent’anni. Ottenne una pensione di invalidità e i suoi due vecchi lo cacciarono presto di casa. Andò a vivere in un appartamento comunale alla periferia di Ferrara.
    Una sera, mentre dormiva di un profondo sonno etilico, venne svegliato improvvisamente da uno strano rumore proveniente proprio dal suo stomaco; un crescente gorgoglio accompagnato da frequenti e dolorose fitte lo spinsero a recarsi immediatamente al Pronto Soccorso. Qui, dopo essere stato visitato da una equipe di medici, venne subito trasferito con urgenza all’ospedale Maggiore di Bologna e isolato in una particolare stanza, immensa, disadorna e asettica: al suo interno si respirava un’atmosfera irreale con quell’unico letto sistemato al centro di essa sul quale Corto si svegliò sei giorni dopo il ricovero, sei lunghi giorni di coma vigile; era pieno di tubi e aghi che gli ricoprivano per intero l’immane stomaco. Un medico entrò.
    “Salve signor Cometa. Io sono il dottor Pallante, come sta? Ha passato giorni migliori vero? Le spiego subito come mai lei si trova qui nel nuovissimo reparto “Casi Rari & Sindromi Sconosciute” dell’ospedale Maggiore di Bologna. Ebbene… lei è un Caso Raro di meteorismo nucleare. Ciò significa che se dovesse innescarsi all’interno del suo stomaco un processo metabolico che noi definiamo scissione flatulenzo-molecolare, basterebbe che lei si facesse scappare anche una sola e leggera emissione di aria dal deretano per radere al suolo un’area con una superficie pari a quella dell’intera Scandinavia, con conseguenze catastrofiche per il mondo intero.”
    “Ma… c’è una cura?” domandò ancora frastornato Corto.
    “Beh, una cura c’è e le probabilità di guarigione rasentano il cento per cento. Purtroppo  non la si conosceva dieci anni fa quando fu scoperto in America il primo caso di meteorismo nucleare. Allora, un texano di quarantasette anni venne rapito dall’FBI e fatto esplodere nel deserto del Nevada. Fortunatamente era un caso molto meno grave del suo, altrimenti avrebbe causato un disastro mondiale. Oggi invece si può tranquillamente guarire; innanzi tutto non dovrà mai più bere birra o altri alcolici, poi le verrà proibito fumare e dovrà attenersi alle regole di una dieta rigidissima.” Corto iniziò a sentirsi depresso. “Non potrà più masturbarsi o fare sesso, perché c’è il rischio che l’eccitazione faccia scattare il processo che le ho spiegato poc’anzi: farmaci inibitori della libido la aiuteranno a questo scopo.”
    Il giovane provò a convincersi che era tutto un sogno ma si rese presto conto che così non era.     Entrò un sacerdote.
    “Salve don Luigi” disse il dottor Pallante, “questo è il signor Corto Cometa… Corto, don Luigi. Ora il nostro caro don le spiegherà la seconda parte, diciamo così, della cura a cui dovrà sottoporsi.”
Corto pensò allora di essere ubriaco, più ubriaco di quanto non fosse mai stato, e che probabilmente era così che si manifestava il delirium tremens. Il sacerdote attaccò con la sua ieratica allocuzione.
    “Carissimo Corto, se vorrai guarire da questo terribile male, male che potrebbe tramutarsi in un flagello per l’umanità, dovrai seguire scrupolosamente alcuni consigli che ora ti darò, oltre a quelli che già ti ha enucleato il professor Pallante. Dunque, per prima cosa dovrai convertirti al Credo Cristiano Cattolico. Dovrai seguire per filo e per segno gli insegnamenti di Iddio nostro Signore, poi una volta compiuta questa metamorfosi spirituale, dovrai trovarti un lavoro fisso; a quel punto, come ti confermerà anche il professore, potrai, anzi dovrai sposarti e ricominciare a fare sesso, ma solo con tua moglie chiaramente ed esclusivamente a fini procreativi. Avrai dei figli e sarai obbligato a crescerli nel modo giusto, insegnando loro la Retta Via…”
    A questo punto Corto non ascoltò più nessuna parola. Udì solo suoni indistinguibili che uscivano dalle bocche di due orrende creature con le facce troppo grandi e gli occhi, le orecchie, la bocca e il naso troppo piccoli per poter essere umani. Si riprese da questo stato confusionale psichedelico quando il dottor Pallante disse:
    “Allora siamo d’accordo signor Cometa? Domani verrà dimesso. E’ molto importante che non mangi niente per i primi sette otto giorni (verrà alimentato con speciali pillole energizzanti) e che tenga quell’occlusore anale che le è stato applicato ben sigillato per altrettanto tempo. Mi raccomando! Passata la prima settimana, la fase di pericolosità massima potrà dirsi scongiurata e la scissione categoricamente esclusa se seguirà le regole, soprattutto quelle enumerate da don Luigi per il suo futuro. Dovrà obbligatoriamente seguirle, capisce? Non possiamo permetterci di rischiare che non lo faccia, per cui per maggior sicurezza sarà controllato a vista notte e giorno da due medici e quattro agenti di polizia. Sa, anche il Capo dello Stato è a conoscenza del suo caso così delicato.”
    Il giorno dopo, giorno del suo rilascio, Corto rassicurò don Luigi, Pallante e tutti gli scienziati presenti che avrebbe fatto tutto ciò che gli avevano detto, dopodiché venne scortato a casa su un blindato della polizia. Una volta giunto nel suo appartamento, sorvegliato da medici e poliziotti, si recò in camera da letto, accese il computer e scrisse le seguenti parole:

Mi osservano tutti preoccupati e perplessi. Probabilmente si staranno chiedendo cosa sto scrivendo: almeno un minimo di privacy me lo concedono. Già, cosa starò mai scrivendo? Con una semplice scoreggia potrei cancellare dalla faccia della terra loro e milioni di inutili e deleteri esseri parlanti, non me ne importerebbe poi molto visto che comunque vada sono già morto. Nubi si addensano sul mio futuro e su quello dell’umanità, proprio mentre io divengo l’uomo più temuto (e quindi più potente) del mondo dopo essere stato schernito e messo in croce. Non me ne importa nulla, non cerco rivincite, non riesco proprio più a vivere in questa società medievale, controllato, comandato e incanalato in un tunnel lungo e probabilmente senza uscita. Sarei anche pronto a togliermi subito questo, come si chiama?, occlusore anale (vedeste le facce che hanno fatto i miei “controllori” quando prima ho finto di staccarlo!), ma ci sono persone che non meritano di essere relegate nell’oblio senza avere avuto un’altra chance dalla vita: prostitute che battono tutte le notti per non essere massacrate da papponi senza scrupoli, omosessuali e transessuali che devono lottare ogni giorno per la loro dignità e identità di esseri umani, reietti, barboni, uomini soli, bambini derubati della propria infanzia, gente che ha avuto il destino straziato dai Comandanti della terra, gli ultimi, quelli che ancora sognano di vivere e non solo di sopravvivere, ecc; tutti costoro meritano di avere una speranza. A loro io lascio la SPERANZA.
Domani informerò le più alte autorità mondiali (cariche religiose, capi di stato, sfruttatori vari…) che desidero incondizionatamente organizzare un summit nel bel mezzo del Pacifico al massimo entro due giorni, per parlare di questioni politiche, morali… insomma, una scusa vale l’altra. Sì sì, faremo una bella crociera e tutti accetteranno perché non hanno altra scelta, forte come sono della mia minaccia. Non possono neppure farmi fuori altrimenti esploderei come un’atomica; ho solo pochi giorni per compiere il Giudizio Universale, poi la mia pancia comincerà a sgonfiarsi e con essa la mia pericolosità. Quando ci troveremo tutti nel bel mezzo dell’oceano, PRRRAAAH!, mi toglierò il tappo dalle chiappe e la leggenda di Petoman potrà avere inizio. Per qualcuno diventerò un eroe, un supereroe, anche se forse le cose non cambieranno molto per chi rimarrà. Almeno avrò dato loro la possibilità di avere SPERANZA. Ora mi congedo, felice di aver trovato la risposta, la risposta che soffia nel vento.


lunedì 19 dicembre 2011

IL VIRUS DEL SILENZIO

In questo racconto si notano alcuni temi ricorrenti nei miei scritti: l'omologazione e il "Nulla" che tengono ancorata l'umanità ad un livello di sottosviluppo mentale e spirituale avvilente. Anche le paranoie di un cervello labirintico (il mio!) hanno influenzato questa breve incursione nel... mondo che verrà: scrissi "Il virus del silenzio" in piena  guerra contro l'Iraq, con l'Occidente pressato da una continua minaccia terroristica ovviamente amplificata dai media. Il potere di tv e giornali è talmente grande che può farti vedere una bomba atomica nello zainetto del tuo vicino di autobus. Soprattutto se ha lineamenti e colore della pelle diversi dal tuo. Ecco dunque che nasce la riflessione sulla forza subliminale del Grande Fratello, capace di influenzare i comportamenti umani tramite la manipolazione della realtà fino all'annullamento del pensiero.


IL VIRUS DEL SILENZIO


Quella sera stavo guardando il telegiornale di Canale 5. Un servizio aveva appena messo in risalto la codardia genetica del nostro paese nel prendere una decisione che non scontentasse troppo gli “amici potenti” per quanto riguardava l’intervento armato in Iraq. Subito dopo Toni Capurzo, inviato di punta del tg mediaset, compariva in tuta bianca e maschera antigas davanti all’ospedale Santa Candida di S.
    “In un reparto speciale sono state ricoverate una decina di persone” riferiva. “Presentano tutti vertigini, cefalea, confusione psichica, nausea e diarrea. Costoro, quattro donne e sei uomini, si trovavano  alla fermata “Luigi Pirandello” della metropolitana quando un uomo di origine yemenita ha estratto dal cappotto una bomboletta spray spruzzandone il contenuto nell’aria e gridando contemporaneamente “Morte all’Occidente”. Le forze speciali di polizia lo hanno freddato con cinque colpi di pistola…”
    La notizia e il filmato erano appena giunti in redazione. Capurzo cercava di dissimulare una certa angoscia e spiegava che il gesto poteva essere, visto che al momento non c’era ancora nessuna certezza, sia l’azione isolata di uno squilibrato sia un atto terroristico ponderato e messo in atto da Al Quaeda o da qualche movimento fondamentalista islamico. Il contenuto della bomboletta era ancora sconosciuto e i sintomi riscontrati nei malati potevano appartenere ad almeno sei o sette differenti patologie virali.
    Abbassai il volume del televisore cercando di non pensare a nulla, ma una conclusione mi passò inevitabilmente per il cervello: prima o poi il mondo si sarebbe autodistrutto; i segnali c’erano già da troppo tempo.
    Erano le venti e quindici. Mi preparai una cena veloce a base di tonno in scatola, piselli in scatola e uova in… scatola, mangiai, apparecchiai per Lisa che sarebbe rientrata dal lavoro verso le ventuno e trenta e me ne andai a letto, troppo stanco per qualsiasi altro sforzo fisico o cerebrale. Di fatti mi addormentai subito ma non tardai molto a risvegliarmi, angosciato fin quasi l’anchilosi a causa di un incubo terribile: ero rimasto l’unico sopravvissuto di una guerra nucleare. Oltre a me a popolare la terra c’erano solo morti viventi, disgustose creature che mi davano la caccia per offrire il mio cervello in sacrificio al loro idolo feticcio, un’ enorme marionetta di legno con tre teste appartenenti a George W. Bush, Saddam Hussein e Karol Wojtyla.
    Sudato e scosso guardai la sveglia: le ventuno e quaranta. Lisa non era ancora rientrata ed io non avevo più sonno cosicché andai in cucina a versarmi un calice di vino rosso, accesi una sigaretta e cercai di rilassarmi stendendomi sul divano del salotto. Accesi il televisore. Non funzionava, il contatore era saltato o avevano tolto la corrente. Guardai fuori dalla finestra; dal terzo piano della palazzina dove io e Lisa vivevamo da quando ci eravamo sposati sei anni prima non si vedeva altro che buio, oscurità totale mista ad una leggera bruma. C’era stato un black-out, ma ciò che era davvero singolare era il silenzio, la calma piatta che pareva avviluppare tutta la città come una cappa di smog in certe giornate afose.
    Accesi una candela e mi riaccomodai sul divano. Alle ventidue Lisa era ancora fuori casa così pensai di chiamarla al cellulare: “La persona da lei chiamata non è al momento raggiungibile, la preghiamo di riprovare più tardi” mi riferì la voce registrata proveniente dal telefono.
    Poco dopo la stanchezza ebbe di nuovo la meglio e caddi in un sonno profondo, questa volta privo di incubi o sogni. Mi risvegliai solo quando la tv riprese a funzionare da sola, dato che era tornata la corrente e probabilmente non l’avevo spenta quando era sopraggiunto il black-out.
    Quello che accadde subito dopo mi frastornò non poco. Dallo schermo giunsero immagini come fossero frecce, dardi infuocati che colpivano ogni parte del mio corpo: centinaia, migliaia di zombie stavano gridando deliranti ad un concerto di Britney Spears.
    Strofinai gli occhi sperando fosse tutto un’allucinazione ma così non era, erano proprio zombie e anche la Spears non sembrava propriamente umana. Forse si trattava di un film o una trovata per un videoclip. Certo, che stupido!, non poteva essere che così. Cambiai canale: il Maurizio Costanzo Show era condotto da uno zombie grasso e pelato, zombie erano gli ospiti, come zombie erano i raccapriccianti esseri che riempivano la platea. Stavo sognando? Cambiai ancora canale e il primo piano di un morto vivente in avanzato stato di decomposizione mi fece trasalire. Aveva capelli di un rosso spento, un accento cacofonico e profondi solchi purulenti sul viso; un occhio gli si staccò dall’orbita destra: era Aldo Biscardi!
    Guardai che ore erano dal quadrante luminoso del registratore accanto al televisore: l’una! E Lisa?! Dove si era cacciata Lisa? Facendo uno zapping disperato con il telecomando per trovare qualche traccia di umanità sul teleschermo incappai nell’edizione notturna del telegiornale di Rete Provincia 59. Una giornalista zombie parlò con voce metallica attraverso un microfono malamente appuntatole con uno spillone da balia allo zigomo sinistro: “… e auguriamo a tutti un buon proseguimento con i nostri programmi” stava dicendo.
    Spensi la tv e barcollai fino alla finestra. Notai che era ancora buio pesto fuori, eppure l’elettricità in casa non mancava. Richiamai Lisa e nuovamente la voce registrata, più nasale e incerta della prima volta che la udii, ripeté la solita nenia.
    Cominciò ad assalirmi un senso di panico. E se tutto quello che stavo vivendo fosse la conseguenza di un attacco chimico o batteriologico da parte dell’Iraq o di Bin Laden o di un qualche pazzoide estremista? A distogliermi da quei pensieri sopraggiunse il suono del campanello della porta. Mi precipitai ad aprire: Lisa!
    “Che è successo Amore? Come mai rientri a quest’ora e non mi hai avvertito?” le chiesi.
    Era emaciata, le occhiaie che cerchiavano i suoi solitamente vispi occhi castani sembravano pitturate con un pennarello nero. La confusione pareva adombrare la sua persona.
    “Sono stata sequestrata dalla polizia Alex! Io e tredici colleghi dei magazzini “Tyler & Capone”. Sono entrati in assetto antisommossa, alcuni erano vestiti con delle specie di scafandri e respiravano attraverso bombole di ossigeno. Ci hanno prelevati e ci hanno internati in una stanza del distretto di polizia. Dottori del Santa Candida ci hanno fatto delle domande, tantissime domande, domande a volte incomprensibili a volte stupide e banali: Cosa pensi della politica di analfabetizzazione perpetrata dai governi per il controllo globale del libero pensiero? Che differenza c’è la “Supercazzora” ed Enrico Ghezzi? Ti piace Nanni Moretti? Mai letto niente di Achille Campanile? Preferisci il vino rosso o il succo di frutta ACE? Credi nell’aldilà? E nell’esistenza del cimitero di Spoon River? Conosci il Sarcoma di Kaposi? Eccetera eccetera. Ma ti pare che io possa conoscere il Sarcoma di Kaposi che non ho mai preso una sufficienza in matematica!
“Ci avranno subissati con un migliaio di domande a testa e alla fine hanno detto che nessuno aveva superato il test, aggiungendo che forse siamo stati tutti contagiati!”
    Scoppiò in uno stillicidio di singhiozzi accompagnati da un profluvio di lacrime che durò per cinque minuti abbondanti. Cercai di calmarla e quando notai che si stava un po’ tranquillizzando le chiesi cosa intendesse per “contagiati”.
    “Hanno detto che un virus chiamato virus del silenzio ci ucciderà tutti, oh mio dio! Dovremo fare degli accertamenti all’ospedale nei prossimi giorni.”
    Detto questo riesplose in un pianto inconsolabile. Non sapevo cosa dire così versai due calici di vino rosso e gliene porsi uno. Trangugiammo d’un fiato il contenuto fruttato e ripetemmo l’operazione un paio di volte. Quando provai di indagare più approfonditamente sulla serata da incubo passata da Lisa era ormai addormentata sul divano con le mie cosce che le fungevano da cuscino. Di lì a poco, stordito, anch’io mi addormentai.

    Il mattino seguente era sabato. Lisa non era di turno ai magazzini “Tyler & Capone” ed io, beh, sono un caso patologico di aspirante scrittore; da tre anni cerco di scrivere il Grande Romanzo ma l’ispirazione mi abbandona sempre sul più bello lasciando campo libero allo sconforto. Avremmo quindi trascorso la giornata insieme.
    Due bottiglie di Chianti giacevano vuote accanto ai calici sul tavolino di vetro di fianco al divano. Io ero sotto la doccia a pormi mille interrogativi riguardo la notte precedente: Era possibile che Lisa fosse stata sequestrata dalla polizia? Era possibile fosse vero tutto ciò che mi aveva raccontato? Era stato un sogno? O meglio, un incubo? Un delirio alcolico? Presto lo avrei saputo.
    Uscii dalla doccia, mi asciugai in fretta e mi rivestii. Tornando in salotto accesi il televisore, tutto sembrava normale. Schiacciai il pulsante del televideo per leggere le notizie delle ultime ore:
    “Bush e Blair pronti a colpire Baghdad…”
    “Fuori pericolo i dieci intossicati dallo squilibrato yemenita nella metropolitana di S. La bomboletta spray, come è stato appurato, conteneva una miscela di gas tossici non letali…”
    “Black-out colpisce S. e gran parte dell’interland. Vandali in azione in molte zone periferiche…”
    Il black-out quindi c’era stato, non era un prodotto della mia fantasia. E la crisi isterica di Lisa? Carezzandole lievemente i capelli cercai di svegliarla.
    “Lisa?! Ehi mogliettina, ti ho preparato un caffè, sveglia!” le sussurrai all’orecchio.
    Aprì gli occhi e ciò che vidi mi colpì con la violenza di un montante da knock-out. Il suo sguardo era simile a quello degli zombie visti o sognati (chi poteva ancora dirlo?) la notte appena passata. Scossi la testa. No, era solamente un’impressione.
    “Buongiorno Alex! Mi sa che abbiamo esagerato stanotte!”
    Esagerato… già, evidentemente avevo davvero bevuto troppo ed avevo vissuto in un film creato dalla mia mente.
    “Ma… a che ora sei rientrata ieri sera dal lavoro?” indagai.
    “Come sempre alle ventuno e trenta. Perché?”
    “Non sei stata trattenuta fino tardi dalla polizia, vero?”
    “Che dici?! Devi aver fatto strani sogni stanotte. Sicuramente ci è scappato qualche calice di troppo.”
    “Già già!” feci io perplesso.
    Mezz’ora più tardi, mentre Lisa era sotto il gettito vigoroso di una doccia tonificante, la avvertii che sarei uscito a fare un po’ di spesa.
    “Io vado Lisa, ci vediamo più tardi!”
    Stavo per chiudermi la porta dell’ingresso alle spalle quando mi sentii chiamare. Lisa era in accappatoio, un asciugamano a mo’ di turbante sulla testa; aveva ancora occhiaie profonde, occhi spenti, colorito pallido.
    “Fai presto che voglio contagiarti.”
    “Come?” chiesi allarmato.
    “Voglio farti impazzire a letto… che avevi capito?”
    “Niente, niente. A dopo.”
    Ciò di cui avevo cercato conferma tra le mura di casa mi apparve in tutta la sua drammatica e venefica evidenza pochi attimi dopo, per le strade di S. Non c’era scampo. Il virus del silenzio stava dilagando.

giovedì 15 dicembre 2011

LA NOTTE DEI PORCI

Si parte! Il primo racconto che "appendo" sulle pareti di questa nuova casa è "La notte dei porci", con il quale vinsi un concorsino qualche anno fa. Il valore alle storie non lo danno i premi, però questo breve scritto datato 2006 qualcosa di valido lo possiede. Almeno per me.


LA NOTTE DEI PORCI

Castellino già! Proprio il paese di Castellino, provincia di Boccasorata. Quello salito alla ribalta delle cronache nazionali per essere stato teatro, nel 1994, di una misteriosa moria di maiali. Se ben ricordate l’argomento tenne banco per settimane, offuscando persino la condanna all’ergastolo di Pietro Pacciani, decisa il primo novembre di quell’anno. Settecentocinquantadue suini appartenenti a due norcinerie e qualche altra decina di capi allevati da singoli contadini, per un totale di ottocentoquindici maiali, vennero trovati morti in una nebbiosa mattina del giorno di ognissanti. Giorni, poi settimane, poi mesi di indagini svolte dai più grandi scienziati e veterinari mondiali non seppero trovare una risposta. Saltò fuori qualche strampalata ipotesi, tipo il passaggio di alieni o un micidiale virus propagatosi e autoestintosi nel giro di poche ore, ma ancora oggi “la notte dei porci”, così come venne ribattezzata, non ha spiegazione.
    Ed è proprio a Castellino che, esattamente undici anni dopo, troviamo Cico seduto ad una scrivania in un piccolo studio circondato da scaffali colmi di libri. Cico sta scrivendo qualcosa sul suo notebook, è tardi, siamo nella notte tra il trentuno ottobre e il primo novembre. Il suo lavoro viene interrotto da una chiamata al cellulare; sullo schermo appare il nome di Buco.
    “Pronto!?” esclama sorpreso, vista anche l’ora, Cico.
    “Cico dove sei Cico?” fa Buco tutto gasato.
    “Dove vuoi che sia Buco, sono a casa. Sono le due di notte. Vabbè che domani è festa ma domattina vado a Casaldelbalengo a presentare il mio nuovo libro, “Il teorema di Siffredi”.”
    “E’ vero, me ne ero dimenticato. Comunque… ti ho chiamato perché io, Librido, Glande e Arafat siamo stati a cena a festeggiare il mio compleanno e volevamo…”
    “Ah già, è il tuo compleanno oggi. Auguri Buco!”
    “Non ti ho invitato perché so che sei a dieta…”
    “Veramente non più, ma non ti preoccupare, non mi sono offeso.”
    “E adesso come va la tua ulcera?”
    “Diciamo che si è stabilizzata.”
    “Senti Cico, io e i ragazzi siamo qui a due passi da casa tua e stiamo andando a chiudere la serata al Cubanita. Volevamo appunto sentire se ti andava di fare un salto a vedere due gnocche.”
    A questo punto Cico fa una breve pausa, durante la quale pensa a cento cose: al livello alcolico di Buco e degli altri, che deve sicuramente essere molto elevato; al fatto che da un po’ gli amici lo hanno messo da parte, da quando cioè due anni prima ha pubblicato “Dio è morto. Di overdose”, una sofferta confessione sull’ipocrisia e l’ottusità del microcosmo paesano di Castellino; alla sua ulcera che in realtà non si è stabilizzata ma è diventato un tumore allo stomaco; ai dieci – quindici mesi che gli restano da vivere; alla presentazione a Casaldelbalengo l’indomani mattina; alla possibilità di seguirli al Cubanita…
    “Pronto Cico, ci sei?”
    “Sì, sì ci sono.”
    “Allora che fai? Vieni?”
    “Ma sì va’! Ho bisogno di spegnere un attimo il cervello. E poi non stavo facendo… niente di importante, stavo… solo scrivendo.”
    Così Cico spegne il notebook e scende in strada. Sale sulla macchina di Buco e insieme ai quattro amici si dirige al nightclub Cubanita. Qui assiste a un paio di spettacoli hard sorseggiando un redbull. La mente però non è lì, si estrania, è focalizzata su ciò che stava scrivendo sul notebook e che si ripromette di riprendere tra due giorni, di ritorno da Casaldelbalengo. Attende che gli amici si diano il cambio nel privè dove la procace Babuska soddisfa le loro voglie ataviche, che per amor del vero significano un bocchino di buon compleanno a Buco, un altro pompino a testa a Librido e Glande e, causa bolletta, una strusciata sul pacco di Arafat.
    Dopo un’oretta e mezza riaccompagnano a casa Cico. Sono da poco passate le quattro di mattina quando riaccende il notebook per dare una controllata a quello che stava scrivendo. Tra tre ore la sveglia suonerà, pensa mentre il computer si carica. Con lo schermo acceso davanti agli occhi clicca sull’icona “anima” e passato qualche secondo lo sgomento lo assale. Il documento è stato cancellato. Controlla anche gli altri documenti: racconti, saggi, articoli, poesie. Tutto sparito.
    “Un virus!” pensa Cico. “Un maledettissimo virus ha cancellato il lavoro di anni.”
    Per fortuna i racconti, i saggi, gli articoli e le poesie erano stati preventivamente salvati su cd o stampati ma “anima”… Lo sgomento si trasforma in disperazione; il documento “anima” è perso per sempre. Lo stomaco prende a tormentarlo con crampi insopportabili. Ingoia un mix di pastiglie accompagnate da un denso sciroppo bluastro, ma il dolore non si placa. La disperazione raggiunge l’acme e Cico comincia a piangere; a nulla serve l’effetto di un sonnifero mischiato alle pastiglie. Arrivano le sette e Cico parte per Casaldelbalengo accompagnato da un amico editore. Il viaggio in macchina è lungo e Cico è stravolto per la stanchezza e la delusione, ma la presentazione de “Il teorema di Siffredi” è un successo, riesce addirittura a vendere dodici copie del libro a dodici dei quarantadue presenti alla Libreria del Corso.
    Per una curiosa coincidenza del destino Cico morirà all’ospedale di Porto Pitale nella notte tra il trentuno ottobre e il primo novembre  dell’anno 2006, esattamente dodici anni dopo il genocidio di maiali di Castellino e un anno dopo la cancellazione del documento “anima” dal notebook. Cosa ci fosse scritto in quel documento non lo sapremo mai. L’unica considerazione che possiamo “cavar fuori” da questo breve racconto è che la vita è una gran maialata, e tutto finirà nel mistero, proprio come nella “notte dei porci”.


mercoledì 14 dicembre 2011

Il Dottore è tornato!

Cari amici vecchi e nuovi, pazienti del Doc e curiosi, menti libere e anime candide, sono tornato! Dopo aver chiuso il sito http://www.dottormanser.it/ per una serie di motivi che non sto ora a spiegarvi, ho traslocato in questo nuovo spazio che, spero, mi consentirà di interagire maggiormente con voi dopo la pubblicazione di molte novità. Essendo appena entrato ad abitare questa casa, non mi muovo ancora a mio agio, ma confido di abituarmici presto. Intanto comincerò ad arredarla con il "meglio" del vecchio sito (abbandonato ufficialmente il 9 dicembre 2011 dopo quasi otto anni di onorata... minchionaggine): posterò i racconti (rivisti e corretti), le immagini e le "perle" che hanno fatto la fortuna del Manser nel tempo. L'augurio che mi faccio è principalmente quello di divertirmi facendovi divertire, ma anche e soprattutto riflettere. Per EVOLVERCI insieme. A presto.