martedì 23 ottobre 2012

Sull'orlo di un dirupo


L'attesa sta per finire. "Sull'orlo di un dirupo", il mio libro più sentito e per questo, credo, più emozionante (oltre che divertente) è in stampa. Richiedetelo sui canali di vendita in rete, oppure alla casa editrice: www.ilfoglioletterario.it. O in qualunque libreria abbia voglia di fare un semplice ordine. O magari al sottoscritto, che se siete in zona vi offre pure una birra. Prezzo di copertina: 12 euro. Soldi spesi bene.

Scrivere un libro con passione su una grande passione. Lo ha fatto l’autore di questa opera che parla di emozioni, sofferenza, riscatto, rinascita. Un libro atipico dove il passato, il presente e il futuro di chi scrive si intrecciano e fanno i conti con il mondo del calcio e la società attuali, universi speculari e purtroppo alla deriva. L’unica speranza sembra venire dalle generazioni in erba, ma salvaguardarle dal degrado morale e spirituale degli adulti appare impresa disperata. Manservisi tenta, tra le pagine e i capitoli di questa “storia di vita”, di suggerire una via d’uscita, via che può essere trovata solo anarchicamente, ovvero seguendo il proprio cuore e rifiutando l’omologazione a uno status quo che sembra il preludio alla vera fine del mondo.

DALLA QUARTA DI COPERTINA:

E già che siamo all’inizio, voglio fare una premessa molto importante: questo libro parla di calcio, ma è come se parlasse di qualsiasi altro sport o passione. Questo libro è per chi ama il calcio, per chi lo odia e per chi se ne frega. Questo libro parla di VITA e le sue pagine gridano, in particolar modo ai giovani e ai loro genitori, una specie di implorazione: LEGGETEMI! Ne vale la pena, sempre che leggere abbia a che fare con la sofferenza piuttosto che col piacere.

(Simone Manservisi) 

Sono passati venticinque anni, e da allora ho sentito un miliardo di suoni e di rumori. Ma il Thumm! del pallone che impattava con il collo del mio piede destro e il Flosccc! della rete che si gonfiava un attimo dopo ce li ho ancora qui, nelle orecchie, come se avessi colpito quel pallone questo pomeriggio.
Questo libro è per chi ha ancora quei bellissimi suoni nelle orecchie. E nel cuore.

(dalla prefazione di Gianluca Morozzi)

martedì 2 ottobre 2012

Dieci giorni = un anno



Dopo aver riletto e radiografato gli articoli che fecero "grande" il vecchio sito, ho valutato che solo un decimo di essi sono riproponibili qui nel nuovo blog. Perché? Perché rappresentano in un certo senso un periodo storico e personale che si è ormai chiuso. Andarli a ripescare mi sembra come andare a riesumare un morto, rileggere le pagine del diario di un altro: non me ne vergogno, però l'evoluzione mi ha portato... oltre. Chi li lesse a suo tempo ne avrà colto il buono e il cattivo che contenevano, così come io, da quel buono e cattivo, ho edificato il Dottor Manser di oggi. Non ha più senso che torni indietro per riscaldare minestre ormai scadute, ma se qualcuno un giorno vorrà "studiare" da un punto di vista esegetico il Doc, basterà farmi un fischio e sarò disponibile ad aprirvi i miei archivi (diari esclusi perché quelli, come sa bene il mio notaio, potranno essere aperti solo cinquant'anni dopo la mia morte). L'articolo che segue è dunque l'ultimo che ripropongo e che sancisce un ideale distacco definitivo da quello che fu il sito dottormanser.it. E' datato 2008 e come congedo mi sembra perfetto.


Quando dieci giorni possono valere un anno? Quando li vivi in viaggio, spremendoli fino all'ultima goccia. Così ho fatto nel mio ultimo on the road, dal nord della Corsica al sud della Sardegna. Dieci giorni intensi, sempre in movimento, ma anche introspettivi, ispirati ed estremamente proficui sia da un punto di vista letterario che di evoluzione spirituale. 
   Mi sono imbarcato a Livorno e il profumo di libertà che già mi inebriava appena partito da casa, quasi mi stordiva. A Bastia mi sono diretto verso Saint Florent, viaggiando su strade strette, con strapiombi non protetti a lato e vacche enormi che comparivano in mezzo alla carreggiata all'improvviso. La prima notte ho piantato l'igloo ad Aleria (sorprendente quanto si dorma bene anche in una tenda quando si è stanchi e appagati) e il giorno seguente ho proseguito verso sud, dove hanno cominciato a presentarmisi alla vista spiagge caraibiche.
   Mi ero ripromesso di fare un bagno "purificatore" in ogni cala che avessi visitato, come fosse un battesimo, un atto di reverenza verso quei luoghi e la natura in generale. A tappe sono poi giunto a Bonifacio dopo essere passato per Ghisonaccia, Solenzara, Palombaggia (la prima spiaggia incantevole; molto meno belle erano le prime), Santa Giulia, Rondinara, Cala Longa e aver trascorso una piacevole serata a Porto Vecchio. Attraversate le Bocche, ho puntato verso Palau e in un camping sul mare, da cui si poteva ammirare la Maddalena, ho piantato la tenda.
   Tappe successive nel nord dell'isola sono state San Teodoro e Budoni, poi mi sono diretto a Cagliari a trovare la mia amica Loredana, unica donna che mi fa incazzare appena apre bocca ma verso la quale nutro un sincero affetto.
   Fatto un salto al Poetto e visitata un po' la città sono tornato verso Olbia, non prima di aver fatto tappa a Santa Lucia e Posada. Nell'attesa del traghetto delle 22.00, l'ultimo giorno ho trascorso il pomeriggio a Golfo Aranci e dopo un ultimo bagno "depurativo" ho salutato la Sardegna.
   Torno dunque a casa rigenerato, con un nuovo racconto-romanzo in cantiere, ispirato per nuove storie, evoluto spiritualmente, felice di essermi avvicinato ai miei limiti e forse averne superato pure qualcuno. Se come ho scritto, dieci giorni così valgono un anno, pensate cosa può valere una vità in... viaggio. Coloro che conoscono bene il "senso" sanno bene che dietro (o dentro) al viaggio c'è il segreto  dell'ETERNITA'.

lunedì 1 ottobre 2012

UN FERRAGOSTO DA INCUBO


 Quando si dice "la fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo". Giovedì 14 agosto io e il mio amico Petru partiamo per fare una serata a Rimini, non valutando (ingenui!) che Rimini a ferragosto è peggio della Mecca invasa dai pellegrini durante il ramadan. Arrivati a destinazione cerchiamo un parcheggio tra le stradine intasate del lungomare e dintorni. Imboccato un viottolo tipo quartieri spagnoli di Napoli, ci troviamo di fronte un macchinone pieno di russi dall'aspetto poco raccomandabile. Io e l'amico dopo esserci scambiati uno sguardo breve ma eloquente, decidiamo che è meglio non sindacare, anche perché basta fare cinque metri in retromarcia per infilarci in un'altra viuzza. Faccio così. Ma mentre cerco di infilarmi un grido squarcia il cicaleccio dei turisti ancora in pausa digestivo davanti agli hotel: "Fermooooooooooo!" E' Petru che con la sua voce quasi copre il lugubre "scrrrrrrrrrrrrrrrrrrch" che proviene dal lato destro della Golf del papi. Faccio altre tre o quattro manovre e mi infilo nella stradina, parcheggio e scendo a controllare l'entità del danno, mentre un vecchietto se la prende con le macchine che erano parcheggiate in divieto di sosta e che a parer suo sono responsabili del danno alla mia macchina. "Chiami i vigili e facci dare la colpa a questi sgraziati!" dice. "No guardi, lasci perdere, qui la colpa è solo mia" rispondo mentre grondo litri di sudore già pensando ai 700 - 1000 eurini che mi chiederà il carrozzaio e soprattutto alla reazione del papi, appena reduce dalla distruzione (sempre da parte mia) dello specchietto retrovisore della Golf. Chiosa: se vi state chiedendo se non so guidare... so guidare benissimo! Trattasi di coincidenze. Dicevamo: appurato il danno mi rimetto in macchina cercando di non pensarci. Non è facile, ma i due mojito scolati durante la festa cubana sulla spiaggia (dopo altre mille peripezie per trovare un parcheggio) mi aiutano molto. Verso le due decidiamo di rientrare. Ci avviamo su viale Regina Elena e dopo aver percorso almeno due chilometri come zombie metropolitani, a Petru sorge un dubbio: "Mone, siamo sicuri di non aver già passato la via dove abbiamo parcheggiato?" "Sai che mi sa che hai ragione" replico frastornato dalla probabile veridicità delle sue parole. "E se l'abbiamo passata, l'abbiamo passata da un pezzo." Torniamo indietro e dopo un chilometro comincio ad avere visioni fantozziane di arcangeli che suonano trombe di falloppio e megadirettori galattici che cercano di assumermi in catena di montaggio. Ad un'ora imprecisata del mattino, più prossima alle quattro che alle tre, troviamo la Golf. Qualche ubriaco ha vomitato sul cofano, ma nel mio stato allucinatorio non me ne può fregare di meno. Cerco le chiavi e rovistando nel borsello, noto con sgomento di aver perso la mia agendina. Quella sì che è una notizia traumatica, ancor più della vomitata e del danno alla macchina. Vi avevo annotato idee, aforismi da utilizzare nei miei racconti, le perle di saggezza rubate qua e là. Ma soprattutto i numeri dei miei pazienti... "Pazienza!" mi fa Petru, ma non sa il valore che ha per me quell'agendina. "Pazienza" dico io cercando di autoconvincermi che morta un'agenda se ne fa un'altra. Comunque sia ci mettiamo in marcia, ma al primo autogrill ci fermiamo a fare un riposino, visto che siamo entrambi stravolti dalla "lunga marcia". Alle sette di mattina, come i guerrieri della notte di ritorno a Coney Island dopo una notte di battaglie, scarico Petru davanti casa sua e torno sperando di non trovare mio padre già alzato. Prontamente lo trovo che sta uscendo a comprare il giornale. "Cazzo" penso, "non potrebbe dormire un po' di più almeno quando è festa?!" "Tutto bene?" chiede, passando accanto al lato scassato del Golf. "Tutto bene" rispondo sudando le ultime gocce di sudore rimastomi in corpo. Papà passa senza accorgersi di nulla, così posso parcheggiare in garage e infilarmi direttamente a letto. Mentre spengo la luce mi dico che domani (oggi) appena sveglio valuterò il modo migliore per dargli la notizia. Alle undici e mezza, dopo neanche quattro ore di sonno, sento suonare il campanello: sono arrivati tutti i parenti per il pranzo di ferragosto a casa nostra. A me scoppia la testa, ma non riesco a riaddormentarmi con il pensiero di come affrontare il papi, ma soprattutto per aver perso l'agendina. A mezzogiorno e mezzo scendo in giardino e subito mio zio mi offre un bicchierone di sangria per colazione. Lo scolo e... Oggesù, ho un'illuminazione. "Hei Pa'" dico, "senti com'è buona questa sangria." Papà, che non è un gran bevitore, la assaggia. Per fortuna gli piace, così con la scusa di qualche brindisi improvvisato gliene verso un altro bicchiere. Al terzo mi decido: "Senti Pa', ti devo fare una confessione: ho distrutto la fiancata della Golf!" "Cus'et fàt?" dice lui. Senza aggiungere altro va a controllare e quando torna, per nulla incacchiato, riempie il bicchiere dei presenti di sangria e in tono solenne annuncia: "Un brindisi a Simone, che deve trovarsi un lavoro per i prossimi due mesi per ripagare i danni alla macchina!" Si alza un coro di "prosit" e qualche risata. Io carburo ancora un po' tanto per farmi passare il mal di testa, poi vengo preso d'assalto da nipotini, nipotine e bimbi vari (qualcuno manco so chi sia) che come sempre mi prendono in mezzo "a forza" nei loro giochi. Alle cinque di pomeriggio, letteralmente esausto, mi ritiro in bagno a farmi una vasca rilassante. Disteso nella schiuma e coccolato dal tepore dell'acqua, con un birrino in mano e "cippi" nell'altra, penso: "L'incubo è finito. Dai, poteva andare peggio!"

martedì 25 settembre 2012

SENECA DOCET

  Per quelli come me, spiriti creativi con velleità letterarie e filosofiche, la fame di sapere è un bisogno equiparabile al mangiare e al bere, necessità di vitale importanza da soddisfare per continuare a campare. Siccome sono un autodidatta, mi arrangio come posso nello studio degli argomenti che più mi interessano e siccome ho asserito più di una volta di sentirmi un piccolo filosofo, mi sono messo a compulsare tomi di filosofia benché molte verità le conosca già senza la spesso astrusa spiegazione di famosi pensatori. Leggendo un librone che racchiude la vita e le opere dei più grandi filosofi da Platone a Benedetto Croce, mi sono imbattuto in Seneca ed è stata una folgorazione. Insomma, io e Lucio Anneo Seneca ce la intendiamo alla perfezione. E dato che in un libro sottolineo sempre tutte le frasi che mi colpiscono, voglio far partecipi anche voi dei passi che hanno dato inizio al mio innamoramento per l’antico (eppur modernissimo) saggio. Eccone alcuni: a) Se sarai padrone del presente, meno dipenderai dall’avvenire. b) Non è povero chi possiede poco, bensì chi desidera più di quanto possiede. c) Vuoi sapere quale sia la giusta misura delle ricchezze? Dapprima avere quel che è strettamente necessario, poi quel che è sufficiente. d) La maggior parte degli uomini ondeggiano miseramente tra il timore della morte e le pene della vita: non vogliono vivere e non sanno morire. Pertanto se ti libererai da ogni preoccupazione per la vita, vivrai lietamente. e) Chi vive in buon accordo con la povertà è ricco. f) Trattieniti con quelli che sono capaci di renderti migliore e lasciati avvicinare da quelli che tu puoi rendere migliori; gli uomini mentre insegnano, imparano. g) Credimi: sembra che alcuni facciano niente eppure svolgono un’attività ben più importante di quella degli altri: si occupano dell’intera realtà nel suo duplice aspetto, umano e divino. h) Colui al quale i propri averi non sembrano più che abbondanti, sarebbe infelice anche se fosse padrone di tutto il mondo. i) Sì, sono sempre dello stesso parere: guardati dal frequentare la folla… l) E’ veramente felice e sicuro di sé stesso chi aspetta il domani senza ansietà. Chi, la sera, ha detto “son vissuto”, ogni giorno levandosi fa un guadagno. m) E’ una sventura vivere in uno stato di necessità: ma vivere in stato di necessità non è affatto necessario. 
   Sembra di sentir parlare il guru. In effetti vi sono alcune analogie tra il filosofo e il nostro Coluicheindicalaluce. Per chi non lo sapesse, Seneca fu incaricato dell’educazione del giovane Nerone, futuro imperatore di Roma. Colui fu insegnante privato di un bambino di nome Paulo Roberto Falcao, futuro ottavo re di Roma. Seneca morì suicida dopo essere stato accusato di congiura. Colui ha tentato più volte il suicidio dopo essere stato ingabbiato dalla censura. Seneca morì bevendo cicuta. Il guru vive sniffando coca. Ed entrambi mi insegnano che l’essere umano è, nella stragrande maggioranza dei casi, una cacchetta indegna. Addio.

domenica 9 settembre 2012

LIBRI 2

Vita, morte e miracoli di Tony Stantuffo, genio inespresso o ineguagliabile coglione. Al lettore l'ardua sentenza. (pubblicato nel 2009)

Favola per grandi e piccini (diciamo dai dieci anni in su), per continuare a sperare in un mondo migliore. (pubblicato nel 2009)

Uno scrittore si sveglia una mattina con una gobba deformante sulla schiena. Da quel momento intraprende un viaggio surreale alla ricerca delle origini del... fardello. Tutto dipenderà da esso. (pubblicato nel 2011)

La fuga dal "manicomico" di cinque matti, guidati da Jesus, per raggiungere la vetta del Mondemer sulla quale  risiedono i saggi possessori della Vulva filosofale. (pubblicato nel 2012)




sabato 8 settembre 2012

LIBRI

Cari amici e carissime amiche, dopo aver postato il meglio e soprattutto il peggio dei miei vecchi racconti, è ora di tornare ad aggiornare il blog. Non potevo non ascoltare le centinaia di lettere e le migliaia di e-mail che  quotidianamente ancora mi giungono supplicandomi di lasciare in rete qualche ricetta o pillola antidepressiva. Noto con piacere che i nostalgici del vecchio sito sono tanti. Purtroppo (e per fortuna) in questi mesi ho dovuto diradare parecchio la mia presenza nei panni del Dottor Manser a scapito di un più riflessivo e studioso Mister Mone. La mia attività filosofico-scientifica procede comunque a gonfie vele e probabilmente in futuro tornerò a vestire con più frequenza il camice lindo del Doc. Nel frattempo ho pensato di andare a spulciare i vecchi articoli e gli interventi del guru Coluicheindicalaluce; dopo aver fatto una cernita degli scritti più attuali e... illuminanti, ri-posterò anche quelli. Prima ancora però ne approfitto per fare un brevissimo riassunto della mia produzione letteraria edita. I libri che ho scritto sono otto (presto uscirà il nono). Ecco a voi i primi quattro (gli altri nel prossimo post) descritti in poche parole.

Breve storia autobiografica. Alex, ragazzo sensibile e sognatore sprofonda in un baratro di dolore che sembra senza fine. La risalita sarà dura. Ce la farà? (pubblicato nel 1997)

Sequel sotto forma di diario del libro precedente. Angosce e tormenti giovanili si fondono con la "voglia di esistere" dell'autore. Libro che rappresenta il mio primo sentito "vaffa" a questo mondo ipocrita alla deriva. (pubblicato nel 1999)

Il protagonista ha una terribile malattia che lo rende allergico alla mediocrità e quindi alla stragrande maggioranza delle persone: il Morbo di Giacomo Kellerman. Avendo ancora poco da vivere ne approfitta per confidare un terribile omicidio compiuto con gli amici anni addietro. (pubblicato nel 2006)

Un thriller crudo e spietato quanto il protagonista, uno scrittore che smette di scrivere per iniziare a uccidere. E per far sì che la gastrite non lo uccida... (pubblicato nel 2007)






venerdì 23 marzo 2012

L'UNGHIA DI BEGONIA

Quattordici anni fa nasceva questo racconto, racconto che ha tutti i difetti del mondo ma non si può certo dire che non sia spontaneo e non rappresenti uno... spaccato di vita, in tutti i sensi. Il titolo (il nome della protagonista) è stato cambiato dopo la sentenza del foro di Bilbao del 14 maggio 2009.

L’UNGHIA DI BEGONIA



Benidorm doveva essere la meta di una vacanza da sballo, di quelle da rievocare negli anni come la madre di tutte le ferie, il nonplusultra del divertimento, un’avventura da raccontare agli amici per far loro invidia e farli pisciare addosso dalle risate non appena ne avessimo sviscerato gli aneddoti più gustosi e persino i più insignificanti. Beh… così non fu. Ci sorbimmo ventuno ore di pullman solo per il viaggio di andata, ma questo è niente, eravamo preparati; pensavamo che ne sarebbe valsa comunque la pena. Non appena giungemmo a destinazione però, venimmo accolti da una sorpresa niente affatto simpatica: il nostro appartamento – prenotato con le migliori garanzie da parte dell’agenzia viaggi – era un sordido tugurio al decimo piano di un fatiscente palazzo privo di ascensore, ubicato in uno squallidissimo quartiere a cinquecento metri da una lurida spiaggia ispanica.
    “No problem!” dissi io per ringalluzzire l’animo sfiancato dallo sbigottimento e dalla stanchezza dei miei compagni di ventura, “è ora di tirare fuori il nostro spirito di adattamento. Fottiamocene e divertiamoci”.
    Questo era quello che pensavano anche loro, ma un secco “vaffanculo” saettato dalla bocca di Isola mi convinse a tacere per un po’.
    Eravamo partiti in quattro: io, Isola, Tano e il Cipputo. Tornammo a casa in due, nel senso che Isola e il Cipputo infarcirono talmente tanto i loro corpi con alcol e droghe che quando rientrammo in Italia, impiegarono due settimane per snebbiare la mente e riassumere una sia pur minima parvenza umana. Per quanto riguarda Tano, non fu di grande compagnia; infatti due giorni dopo il nostro arrivo in Spagna conobbe un ricco pederasta francese e passò quelle due settimane sullo yacht di Pierre Cocteau (detto il Marchese) tra effeminati giovincelli e glabri nonché nerboruti ragazzi in cerca di amore omo. Io trascorsi la prima settimana nell’allegra combriccola del Cipputo e di Isola, mentre i rimanenti giorni fluirono in uno stato di ascesi dove mi ritrovai a contemplare quella sconvolgente prima settimana. Se mai nella vita di un uomo si può parlare di punto di svolta drastico, io svoltai drasticamente proprio allora.
    Maria Giovanna, coca, hascisc, ecstasy, lsd, e chi più ne ha più ne metta; ci stavamo talmente appassionando al culto della droga che non uscivamo quasi più di casa. Eravamo curiosi di provare ogni tipo si sensazione addotta dalle sostanze stupefacenti. Per sei giorni non vedemmo né mare né sole, vivevamo di notte tra discoteche, rave party e locali di tendenza: qui mettevamo in pratica gli esiti e gli effetti del nostro hobby quotidiano. Fu proprio una di quelle sere che conobbi, al famoso Eku’s di Benidorm, Begonia, giovin pulzella di origine basca dalle forme sinuose e dal tenero visetto.
    Come ero fatto quella sera non lo sono mai stato, né mai lo sarò più – ne sono certo – in vita mia; ad ogni modo, non ricordo come, feci colpo sulla spagnoletta e la invitai al bancone del bar a bere qualcosa. Dopodiché seguii il classico rituale del giovane arrapato bramoso di sorcetta umida: piantai la lingua in bocca a Begonia e la invitai nel nostro appartamento. Non ci fu problema: già pregustava – come me d’altronde – le gioie del sesso, così prendemmo un taxi e via, destinazione Avenida de Mierda, vicino a Plaza de Schifo. Quando arrivammo su al decimo piano, la ragazza mi sembrava in splendida forma e ancor più bella di quando l’avevo conosciuta un paio di ore prima. Tutti quei piani saliti a piedi però mi accompagnarono boccheggiante alla meta e per riprendermi andai in bagno a tirare un po’ di coca della scorta personale di Isola. Ne uscii come nuovo e zompai letteralmente addosso alla chiquita. Ci spogliammo l’un l’altra e quando fummo nudi e crudi le infilai la mia bella nerchia pulsante su per quel soffice orifizio peloso che era la sua figa; ebbe un fremito di piacere accompagnato da un lungo sospiro, purtroppo però ero talmente eccitato che me ne venni quasi subito, lasciandola inappagata.
    “Excusame mucho” esclamai, “vado un momentito in bagno, e quando torno te inforco fino a romperte la fregna. Comprende?”
    Questa mi faceva di sì con la testa ma di sicuro non aveva capito nada. Comunque, vado in bagno a riassestarmi: cinquanta mila di benzina por favor… snifff… snifff e vamos; torno in camera e cosa vedo? Begonia a gambe aperte che si stava sparando un ditalino e gemeva, oh come gemeva quella troietta lussuriosa! Dissi: “Che Iddio abbia pietà di te!”. Era giunto il mio momento, Gigi era tornato in splendida forma, mi sentivo un leone pronto ad avventarsi sulla preda inerme. Dopo un po’ di preliminari penetrai la purchiacchella per il secondo giro e, beh, questa volta… tuoni e fulmini: la montai inizialmente nella posizione classica del missionario, poi la misi a pecora, infine fu lei a posizionarmisi sopra e qui venne tra spasmi violenti e grida da bovara. Io ne avevo ancora così decisi di metterglielo nel culo; a lei non dispiacque e un altro forte orgasmo la travolse. La mandai più volte in estasi poi anch’io me ne venni tra le sue belle chiappe sode. Quando chiusi gli occhi per rilassarmi pensai di avere appena terminato la più formidabile chiavata della mia vita.

***

Alle nove di mattina io e Begonia venimmo svegliati da Isola e dal Cipputo che rincasavano provenienti dal loro paese dei balocchi.
    Dopo averla un po’ palpata Isola svegliò la ragazza che, imbarazzatissima, si rivestì senza aprire bocca; la salutai dandole appuntamento per quella sera stessa sempre all’Eku’s poi la congedai con un bacio. Vedevo tutto annebbiato e tornai immediatamente a letto, constatando che i Fratelli Tossici, come li avevo soprannominati io, erano già belli stesi. Dormivamo in un'unica stanzetta: io nel letto matrimoniale con il Cipputo mentre Isola aveva occupato il piano inferiore del letto a castello, il cui coinquilino doveva essere Tano. Ma chissà che letti frequentava lui la notte.
    Verso le cinque del pomeriggio mi svegliai con l’odore del caffè che stava preparando Isola. Il Cipputo fumava una canna sul terrazzo e quando mi vide mi offrì un giro ma rifiutai perché avevo la testa che mi scoppiava. Bevvi il caffè mentre osservavo los amigos che con perseveranza  davano inizio all’ennesimo drug party. Oltre alla testa mi doleva anche lo stomaco, per cui mi ridistesi nuovamente sul letto dopo aver ingoiato un paio d’aspirine.
    A mezzanotte e trenta circa, il Cipputo e Isola mi svegliarono: era ora di andare alla “carica”. Io non stavo benissimo ma mi ero almeno ripreso dal mal di testa e di stomaco; fu così che me ne uscii per la prima volta dall’inizio di queste vacanze lucido e sobrio. Rifiutai pure un pastiglino di non so cosa che mi passò Isola dicendo: “Grazie ragazzi, ma oggi time out. Penso che rientrerò domani nella Toxic Company.”
    Quando arrivammo all’ Eku’s, i miei amici partirono in quarta alla ricerca di “carne” fresca da mettere sulla graticola della loro ardente euforia sessuale, mentre io, leggermente sofferente e un tantino abbacchiato mi sedetti su un divanetto sorseggiando un’aranciata amara. Ero lì che osservavo Isola darci di lingua con una quarantenne svedese quando mi resi conto di non ricordare assolutamente il volto di Begonia; nonostante mi sforzassi non riuscivo a focalizzare la sua fisionomia. Un fatto mi distolse da questi pensieri: una tipa grassoccia, butterata, con dei capelli unti e una pelle lucida da fare schifo si mise a sedere al mio fianco.
    “Hola! Como estas?” mi dice.
    “Bien!” rispondo io distrattamente.
    Passano pochi attimi e connetto tutto: è Begonia. Come ho potuto portarmi a letto un cesso di figa come quello? Quanta merda ho ingerito e inalato per intravedere anche solo un leggero barlume di fascino o bellezza in quell’aborto d’una putrida fregna? Deglutii saliva più volte, inorridendo palesemente al primo tentativo che fece di baciarmi; scansai quelle labbra grottesche con agilità, poi in uno spagnolo stentato cercai di spiegarle che non stavo bene e che avevo intenzione di tornare subito all’appartamento. Lei sembrò rattristarsi a questa notizia ma… fanculo!, io me la diedi a gambe. Senza neppure avvertire Isola e il Cipputo, corsi a prendere un taxi.
    Ero in casa da un’ora, sul terrazzo dell’appartamento a godermi la leggera brezza notturna e la splendente luna quando bussarono alla porta. Andai ad aprire un po’ infastidito per essere stato interrotto in quel piacevole momento contemplativo e chi mi trovai di fronte? Begonia. Aveva con sé un paio di bottiglie di vinello rosso di San Sebastian e un consistente pezzo di hascisc pakistano.     Essendo io una persona all’occorrenza abbastanza gentile e disponibile la feci accomodare; neanche il tempo di togliersi quell’orribile giacca kitsch che indossava che questa sgraziata creatura aveva già stappato la prima bottiglia. Non avevo nessuna intenzione di bere, ma quando mi resi conto che era l’unico modo per affrontare una situazione del genere, mi scolai  tutto il vino che aveva portato  nel giro di un’oretta. Finito che ebbi l’ultimo bicchiere, Begonia cominciò a gingillarsi con il mio Gigi e da quel momento non vidi più Begonia, non c’era più nessun barilotto nauseabondo davanti a me; c’era solo un buco nero, una foresta magica e rigogliosa, una Medusa che cercava di ipnotizzarmi il cervello e pietrificarmi l’uccello: ci riusciva benissimo.

***

Alle sette della mattina mi svegliai. Begonia era lì al mio fianco e ora, alla luce del giorno e con il cervello terso e connesso, risaltava in tutta la sua bruttezza. La osservai attentamente e… la annusai attentamente: come cazzo fa una persona appartenente alla specie umana a puzzare così tanto?! E soprattutto, come può uno come me scoparsi una cosa del genere? Provai un certo malessere mentre passavo lo sguardo sui suoi capelli, poi sui fianchi pienotti, sul sedere grassoccio, le cosce, i piedi… aaaaaah, mamma mia! Questa non aveva dei piedi, aveva un paio di zampe in necrosi purulento-degenerativa, due cimiteri profanati dal Dio Putrido. Sgranai gli occhi non riuscendo a credere a ciò che avevo davanti: nel piede destro, su cinque unghie, tre erano nere di sporcizia, una era avvolta da un cerotto e un’altra ancora era nera probabilmente perché schiacciata. Idem per il piede sinistro, con l’unica differenza che aveva un dito, l’alluce, ancora vergine e incontaminato. E che tanfo! Andai in bagno e vomitai.
    Sciacquandomi la faccia sotto il getto ghiacciato del rubinetto, pensai che se i miei amici (il Cipputo e Isola in stato di sobrietà per intenderci) si rendessero conto chi, anzi cosa mi sono chiavato, verrei sfottuto per il resto dei miei giorni.
    Influenzato da quest’ultima gaia possibilità, mentre Begonia ancora dormiva mi baluginò in testa un’idea che colsi nella sua estemporaneità; presi la Canon che ancora non avevo tirato fuori dalla valigia e cominciai a fotografarla, immortalando più che altro quei due piedi che se non se li curava, un giorno quella povera ragazza si sarebbe ritrovata con dei moncherini o con protesi artificiali. Con l’autoscatto mi fotografai nelle posizioni più idiote: annusandole (fingendo!!!) i piedi, il culo, le ascelle… Sì lo so che ero un demente delirante in questa valle di lacrime, il problema era che non me ne rendevo conto e non mi dispiaceva affatto esserlo.
    Quando verso le otto e trenta tornò a casa Isola con la sua svedesona (il Cipputo , come ho appurato in seguito, era a farsi sbocchinare da una minorenne olandese), venni come assalito da un raptus di follia isterica; svegliai Begonia a calci nel culo e la trascinai fuori dalla porta nuda, tirandole dietro i vestiti.
    “Hijo de puta!” mi grida lei incazzata.
    “Vai via balenottera di merda, e non farti più vedere!” replico io mentre ero già sotto la doccia a scrollarmi di dosso quell’alone di apocalisse, quella sensazione di aver contratto la peste bubbonica che mi aveva lasciato quella passera mefitica.
    Lì, con l’acqua gelida che scorreva su tutto il corpo e che mi arrecava un piacere quasi orgiastico, sentii un grido proveniente dalla camera da letto. In procinto di essere cavalcato dalla Ingrid, Isola si era conficcato l’unghia dell’alluce marcio di Begonia nella chiappa sinistra. Mi precipitai in suo soccorso e gli estrassi accuratamente l’arma letale dal sedere poi, quando stava ancora imprecando, gli consigliai di andarsi a disinfettare se non voleva beccarsi il tetano o una qualche forma sconosciuta di virus. Aiutato da Ingrid, l’amico andò a detergersi la ferita in bagno dove poco dopo proseguì l’amplesso sulla tazza del cesso.
    In cucina stavo analizzando quell’unghia quando… visione celeste, crisi dell’Io… non so bene cosa mi accadde ma decisi che quel pezzetto disgustoso del piede di Begonia sarebbe diventato un cimelio, un amuleto da conservare, da adorare; un antisfiga, un portafortuna, insomma… la mia unghia custode. Dopo tutto mi aveva insegnato una bella lezione, anzi più di una, che misi in pratica a partire da quel giorno stesso: primo, basta con le droghe almeno quelle pesanti e in quantità smisurata; secondo, avevo fatto beneficenza a una ragazza inguardabile e potevo essere felice di aver fatto del bene, ma da allora in poi… solo offerte in denaro; terzo, ho imparato che alla disgregazione cerebrale e morale (la mia) e materiale (quella di Begonia) non ci sono limiti percepibili dai diretti interessati quando si entra nella spirale che porta verso il fondo; infine – ma questo l’ho imparato molto tempo dopo – io vedevo in Begonia una diseredata, un relitto ambulante, giovane ragazza che giocava la disperata partita contro la solitudine così come qualunque altra persona in grado di decodificare i miei comportamenti e la mia personalità corrosa e corrotta dalla precarietà esistenziale della vita stessa avrebbe visto che non valevo né più né meno quello che valeva lei. C’era solo una differenza rilevante, e cioè che probabilmente Begonia non aveva e non avrebbe mai avuto la possibilità di condurre il gioco (sia bene inteso che non dico questo riferendomi al suo aspetto esteriore, valuto bensì alcuni aspetti che mi suggeriscono che la spagnola era una persona scialba), mentre io la capacità di comandare il mio destino l’avevo avuta. Ma ho perso la partita.

***

A distanza di parecchi anni da quella vacanza in Costa Blanca, non ricordo quasi più nulla di quei giorni. Gettai via persino il rullino con le foto di Begonia prima ancora di tornare a casa e mai, mai ho riso di quelle avventure.
    Tano si è stabilito in Thailandia a vivere nell’harem del Marchese e non ho più contatti con lui da almeno tre anni. Il Cipputo fa continuamente la spola fra il carcere ed una comunità per il recupero di tossici. Isola, beh lui è morto alcuni mesi dopo il rientro da Benidorm: sua madre lo trovò nel bagno con la siringa ancora penzolante dal braccio. La maledizione di Begonia non era stata esorcizzata con il disinfettante e non lo aveva perdonato.
    Allora si voleva partire per spaccare il mondo; ci siamo spaccati noi stessi, trascinati nel vortice del nulla, nel vuoto che avevamo dentro e che non riuscivamo a colmare se non con “stupefacenti” giochi di prestigio. Come finì quella vacanza? Che importa come finì. Basti sapere che quando il proprietario dell’appartamento ci presentò il conto, noi lo saldammo senza sapere quanto alto era stato in realtà il prezzo pagato alla nostra voglia di evasione.
    Quando ancora oggi osservo l’unghia di Begonia, che porto sempre al collo gelosamente custodita all’interno di un ciondolo di cristallo appeso ad una catenina d’oro, mi affiora alla mente il ricordo dei miei amici e i fantasmi della nostra giovinezza si materializzano a inquietarmi l’anima.
    “Che cos’è quella schifezza che hai al collo?” mi chiedono spesso.
    “E’ l’unghia di una Dea crudele” rispondo io, “che venne uccisa dall’ancor più crudele ferocia di un essere umano, il quale però si dovette portare appresso la sua maledizione per tutta la vita. Chi possiede quest’unghia può considerarsi – a contrario di quello che si è indotti a pensare udendo ciò che ho appena detto – molto fortunato. Posso affermare che è vero.”
    E’ vero sì, altrimenti non sarei qui a scriverlo.

mercoledì 14 marzo 2012

TORTELLINO

"Tortellino" è un racconto del 1999 se non erro. La passione giovanile per Edgar Allan Poe e Stephen King si dovrebbe notare tra le righe di questa storia di sangue e vendetta. Godetevela se vi va.


La storia che sto per raccontarti ora, della quale sono stato testimone “obbligato”, sembra uscita direttamente da un film dell’orrore, ma ogni singolo fatto che avviene in essa è pura, raccapricciante realtà. La racconto esclusivamente a te perché sono certo che non svelerai mai a nessuno il contenuto di questa missiva: se ti conosco bene come credo, ho questa sicurezza.
    E’ molto probabile che anche tu mi conosca: sono Gilberto Biagi e vivo nello stesso ameno paesello di campagna dove tu sei cresciuto e dove a lungo hai abitato prima di diventare un affermato scrittore fuori da qualsiasi schema. Come presumo tu sappia, di mestiere faccio il coltivatore diretto: sono un contadino, come amo ancora definirmi orgogliosamente. Io e la mia famiglia – moglie e tre figli di tre, sei e otto anni – possediamo un piccolo podere a ridosso degli argini del fiume Terno e la nostra casetta, ivi costruita, è piccola ma tanto accogliente. Tutti in paese ci vogliono bene. Generosità e disponibilità sono doti che io e mia moglie Fiammetta andiamo fieri di possedere.
    Ora, io non sono molto bravo a scrivere; sì e no avrò letto una decina di libri in vita mia (tra i quali due dei tuoi!), ma questa storia mio carissimo e inconsapevole pigmalione, deve essere assolutamente raccontata, anche perché i media e il processo che seguì al famosissimo caso dei cinque ragazzi di Cargi scomparsi (dove sono stato chiamato a deporre), non hanno mai fatto luce sulla vicenda e questo lo sai bene anche tu.
    Veniamo ai fatti. Il venticinque giugno dell’anno scorso ero solo in casa. Fiammetta e i miei figlioli Luca, Lia e Leika, si erano recati in paese per fare delle compere. In un raro momento di relax giornaliero stavo guardando la televisione, quando udii bussare alla porta. Andai ad aprire e mi trovai di fronte la facciona tonda e imporporata di Pino Pulga, il mio vicino di casa. Notai subito il suo sguardo fermo e deciso, ma prima di raccontarti ciò che accadde un istante dopo, voglio spiegarti bene chi è Pino Pulga e perché il suo folle gesto mi scosse per sempre dalla mia adorata monotonia quotidiana.
    Forse pure tu conoscerai qualche particolare della vita di Pino, detto Tortellino a causa del suo pantagruelico appetito, però io ti farò luce sulla vera storia del mio amico. Amico? Più che amico: un’amicizia fraterna ci legava sin dall’infanzia; la sua giovinezza era filata via insieme alla mia senza grossi scossoni, almeno per quel che mi risulta. La nostra più grande differenza stava nel fatto che lui odiava il clima moralista , ipocrita e buonista di Cargi, a sua detta paese troppo soffocato dall’afa cattolica dei suoi abitanti. Io invece sono sempre stato un buon cristiano praticante senza che ciò interferisse nel nostro rapporto: io rispettavo lui e lui rispettava me, soprattutto perché non mi includeva nella categoria di persone sopra citate.
    Si era sposato due anni prima che mi sposassi io, ma qualche settimana prima del giorno delle mie nozze con Fiammetta, la moglie di Pino morì in un incidente stradale alle porte del paese: era incinta di tre mesi come ricorderai forse dalle cronache regionali e nazionali del tempo. Neppure io lo sapevo. Il povero Tortellino uscì distrutto da quel dramma e dopo aver mascherato con immenso sforzo il suo dolore, partecipò al nostro matrimonio, poi, conclusasi la cerimonia sparì nel nulla.
    Non ebbi sue notizie, come del resto l’intera nostra comunità (non aveva neppure parenti in vita), per circa sei mesi. All’improvviso eccolo riapparire di nuovo: era dimagrito almeno dieci chili e i suoi ispidi capelli neri erano ora brizzolati; la sua carnagione mi sembrava molto più olivastra di quanto ricordassi. Pareva un’altra persona. O forse, più semplicemente, era un’altra persona.
    Durante la sua assenza  gli avevo curato l’orto e badato la casa; mi ringraziò calorosamente per questo ma non mi volle dire cosa aveva combinato in quei sei mesi. E nessuno lo seppe mai, tanto che le congetture più assurde e fantasiose si alimentavano quotidianamente nella piazza di Cargi.
    Tortellino tornò alla sua vita di sempre nei campi, con la solita dedizione e sacrificio. Aveva cambiato solo l’abitudine serale del bar e della briscola tra amici: in effetti non usciva mai in paese se non una volta alla settimana per fare qualche spesa. Io lo invitavo spesso a cena a casa nostra, ma lui rifiutava sempre garbatamente. Si era chiuso in un mutismo cupo, da cui nulla pareva destarlo. Nessuno avrebbe riconosciuto in Pino il burbero ciarlone che era una volta. Visse così, in mesta solitudine per circa dieci anni.
   Ed eccoci al venticinque giugno. Aperta la porta mi vidi puntare contro il fucile a canne mozze di Tortellino: “Seguimi senza tante storie” mi disse in tono minaccioso. Ovviamente eseguii i suoi ordini nonostante la sorpresa e l’angoscia mi paralizzassero. In assoluto silenzio mi condusse nella sua stalla e qui mi legò le mani ad un vecchio giogo appeso al muro, poi con voce cordiale, quasi addolcita d’incanto, mi disse: “Non ti preoccupare caro Berto, non ti accadrà nulla. Ora assisterai al processo, allo spettacolo della morte che entra in scena per recitare atti di giustizia.”
    Davanti a me si ergeva una specie di rozzo teatrino, costruito probabilmente in poche ore da Pino non molto tempo prima, dato che il giorno antecedente, passando accanto alla stalla non avevo notato nulla.
    Si aprì il sipario (un lungo lenzuolo rosso appeso ad una trave) ed io sgranai gli occhi: cinque ragazzi erano legati ed imbavagliati su altrettante sedie sistemate sopra un tappeto di nylon. Impiegai diversi secondi per capire che erano cinque giovani del paese, tutti figli o parenti di persone che conosco (e credo pure tu) molto bene, gente di chiesa che incontravo tutte le domeniche nella Casa del Signore e con la quale mi intrattenevo spesso a chiacchierare di cose più o meno futili. Come sai bene quei ragazzi erano: Giacomo Lenzi, di ventinove anni, figlio del diacono Giovannino Lenzi; Guido Fabbri, di venticinque anni, figlio del sacrestano Paolo Fabbri; Samuele e Primo Tassi, di venticinque e ventisette anni, nipoti di don Gino Tassi; Roberto Zaccarini, di ventisette anni, figlio della perpetua Ilenia Boselli.
    “Ti prego Pino, non fare pazzie! Cosa vuoi fare a questi ragazzi?” lo implorai.
    “Prima di eseguire la condanna, voglio raccontarti una storia…”
   Mi fece così luce sul suo dramma e sulla “latitanza” iniziata dopo la morte della moglie. La notte dell’incidente, un amico di quegli stessi cinque ragazzi (ricordi Marco Cappato, il figlio del gommista?) che vedevo ora terrorizzati davanti a me, si era recato da Pino e gli aveva rivelato che i suoi amici avevano scagliato una grossa pietra giù dal ponte di San Rocco, sito poco fuori Cargi, e avevano centrato in pieno il parabrezza dell’auto su cui viaggiava la consorte del Pulga. La donna, che andava a forte velocità, si schiantò contro il muro di recinzione di una villetta disintegrando completamente la vettura. Siccome la pietra non venne rinvenuta e nessun testimone aveva assistito al sinistro, i carabinieri archiviarono la pratica e Maria Cappellari in Pulga risultò deceduta per incidente automobilistico causato da un presunto colpo di sonno e dall’alta velocità.
    Marco raccontò a Tortellino di aver cercato di impedire il folle gesto ma una volta centrato il bersaglio era stato seriamente minacciato di non aprire bocca sull’accaduto. Disse anche che dopo la disgrazia i cinque giovani se ne erano andati felici e chiassosi a festeggiare l’impresa in un pub non lontano. Il Cappato se ne era tornato a casa sconvolto e alcune ore dopo sarebbe andato a far visita allo straziato Pino, il quale lo pregò di non rivelare a nessun altro ciò che gli aveva appena confidato: nella sua mente e nel suo cuore in quel momento si era spezzato qualcosa. Ricevute le dovute garanzie, Tortellino attese impazientemente il giorno del mio matrimonio, dopodiché fece i bagagli e partì, così, senza meta per le strade italiane. Covando la sua vendetta si stabilì per un mese ad Ortona, in casa di un amico di vecchia data con il quale aveva fatto il militare anni addietro; si trasferì poi a Gaeta, non so bene per quale motivo, ma qui - i casi della vita! - vinse tre miliardi al Totocalcio. Questo fatto lo portò inevitabilmente a rivalutare alcuni aspetti della sua vita futura. Decise così di starsene lontano da casa ancora qualche mese; in tal modo il suo piano avrebbe avuto il tempo di essere meticolosamente perfezionato. Andò in Francia, a Marsiglia, dove stette per altri due mesi ospitato da parenti della defunta moglie, poi via di nuovo, questa volta destinazione Messico. Quando rientrò a Cargi, il suo diabolico disegno era perfettamente delineato nella sua mente di uomo provato.
    Dieci anni ci vollero prima che mettesse in atto il suo progetto; non aveva fretta, lasciava che la vendetta covasse sotto la cenere del suo cuore bruciato. Alcuni anni prima aveva tentato di mettere in pratica la ferale serie di alchimie cerebrali propedeutiche alla riuscita del suo scopo, però non si erano verificate le condizioni favorevoli. Poi, eccoci al momento della resa dei conti: i cinque amici abboccarono tutti alla storia che Tortellino fece raccontare loro da Marco Cappato, precedentemente “ricompensato” con un centinaio di milioni della super vincita al Totocalcio.
    “Ragazzi, la casa di Tortellino è momentaneamente incustodita. Lui è lontano da casa per motivi di salute e… beh, si dice in giro che abbia oro e preziosi per miliardi  sparsi là dentro.” Così riferì Marco e tutti e cinque gli inseparabili compagni abboccarono all’amo del mortal destino.      Quando quella sera entrarono nella casa “incustodita” del mio amico, si ritrovarono come il giorno dopo mi trovai io, con il fucile puntato contro. Pino li costrinse a bere del sonnifero per non avere problemi nel legarli ed eccoli tutti lì in fila, svegli e impauriti come non mai.
    “Ma perché vuoi farmi vedere tutto questo Pino? Perché proprio a me?” E se tornassero mia moglie e i miei figli?” dissi io.
    “Tua moglie e i bambini non rincasano mai prima di mezzogiorno durante l’estate ed ora sono appena le dieci e quindici. Per quanto riguarda te amico mio, è proprio perché ti voglio bene se sto cercando di aprirti gli occhi.”
    “Che vuoi dire? E se decidessi di riferire tutto alla polizia? Tu… tu sei pazzo! Stai per commettere un crimine spaventoso!”
    Seguì una lunga pausa. Riprese: “No Berto, non racconterai niente a nessuno. Quando ti avrò liberato, tu sarai dalla mia parte. Sarai anche tu un uomo diverso.”
    Lo osservavo allibito. Sentivo la gola secca e stavo probabilmente cercando di fare un ultimo tentativo per farlo desistere dal suo intento quando pose fine alla discussione. Il verdetto ormai era stato emesso: “Chiunque creda nella giustizia terrena o celeste è solo un fesso. Questa è la nemesi storica che distrugge il frutto marcio di un albero putrescente. Questa è la vera giustizia.” Dichiarò questo, dopodiché infilò una specie di toga da giudice, afferrò un machete affilatissimo e diede inizio alla mattanza. Enunciato in tono solenne il nome, l’età e il grado di parentela che legava ogni singolo ragazzo al già citato padre, madre o zio, mozzò loro la testa uno ad uno, in una escalation adrenalinica di accecante delirio.
    Stranamente non provavo ribrezzo nel vedere tutto quell’orrore. Mi vennero in mente le parole pronunciate da Tortellino poco prima: “Quando ti avrò liberato, tu sarai dalla mia parte. Sarai anche tu un uomo diverso.” Stentavo a crederci; non potevo essere io, Gilberto Biagi, cristiano praticante, buon padre di famiglia e lavoratore indefesso quel mostro che quasi provava un senso di sollievo nell’assistere a quel massacro. Eppure…
    Pino avvolse i cadaveri nel nylon, li caricò sul suo furgoncino e dopo avermi liberato si scusò per come mi aveva trattato. Mentre mi parlava mi scrutava con sguardo ipnotico, al quale io non seppi reagire se non per dire con voce fievole “ci vediamo”. Andò a murare quei corpi e quelle teste tagliate nel cemento che avrebbe fatto da fondamenta alla villetta che stava costruendo a Pive, non lontano da Cargi.
    Rientrato in casa dalla stalla dell’amico quella mattina, fu solo allora che mi resi realmente conto di ciò che era accaduto. Quei ragazzi erano tutti figli o nipoti di gente religiosissima che come il sottoscritto aveva intravisto nella Chiesa e in Gesù nostro Signore la strada giusta per garantirsi la felicità terrena e l’eternità celeste, purtroppo però non avevano fatto i conti con la dannazione dei loro giovani, nonostante i loro rigidi e un po’ bigotti canoni educativi avrebbero voluto imporre ben altri insegnamenti. Quando rincasò mia moglie decisi di non dir nulla sull’accaduto: tra me e Tortellino, non so come e perché, in quella stalla si era creato un tacito accordo di collaborazione.
    Alcuni giorni dopo la scomparsa dei cinque giovani, le indagini della polizia (non riesco a spiegarmi come possano aver fatto!) si incanalarono proprio nella direzione di Pino, ma al processo durante la mia testimonianza lo scagionai affermando che la notte in cui erano spariti i ragazzi, egli era in casa sua in compagnia dello spirito della moglie e del frutto che portava in grembo. E devo aggiungere che durante le varie udienze, la disperazione di quei parenti distrutti dal dolore non ha mai minimamente impietosito il mio cuore.
    Il mistero della sparizione dei cinque giovani cargilesi è a tutt’oggi uno dei grandi casi insoluti della giustizia italiana; anche se – permettimi la considerazione – paradossalmente, non poteva esserci giustizia più equa di quella esercitata da Pino. Dopo tutto non ha fatto altro che liberare il mondo da cinque parassiti e l’estate prossima io e la mia ignara famiglia , andremo a trovarlo allo “Scalpo” di Acapulco, il ristorante sull’oceano che ha aperto da poco, dove potremo gustarci le specialità italiane e messicane tornando finalmente a sorridere sul futuro che ci attende.

                                                                                                                                        Cordiali saluti,
                                                                                                                                        Un ammiratore


RISPOSTA ALLA LETTERA DI GILBERTO BIAGI

Che Iddio ti benedica!!!

                                                                                                                                           

lunedì 20 febbraio 2012

La Solitudine

In questi racconti del Pleistocene il tema principale è la Solitudine, ma non quella positiva che ispira e produce rumore, o meglio, musica; qui si tratta di una solitudine negativa, quasi straziante, una solitudine che, per fortuna, non mi appartiene più, sconfitta dalla voglia di vivere e dalla "luce". 

VIALE SOLITUDINE
  
Sabato sera di fine gennaio. Dopo aver trascorso un venerdì notte a bere porcherie in vari localetti della provincia, mi sentivo veramente giù. Tra l’altro il sabato sera dalle mie parti è il giorno consacrato all’uscita con la morosa, per cui quella sera sapevo già che uscendo e recandomi al punto d’incontro della mia compagnia, il BarBaro, avrei trovato solo Fetuso e Smoke, gli unici due sfigati insieme a me che nessuna donna avrebbe mai filato, nemmeno per pietà.
    Uscii di casa senza fare tappa al BarBaro e mi diressi in città. Mi era venuta un’idea carina: siccome erano già più di tre mesi che non scopavo (l’ultima volta era stato con una stupenda prostituta di Amsterdam, l’estate scorsa, quando avevo trascorso qualche giorno di vacanza in Olanda con Smoke), una bottarella con una bella slava – per me le migliori tra quelle che battono i viali cittadini – ci stava a pennello. Vorrei far notare che in vita mia ho quasi sempre scopato in cambio di denaro, ma per quelli come me, “brutti, sporchi e cattivi”, è dura tirare avanti altrimenti. Siamo figli della solitudine e prendiamo a calci in culo la vita, perché ci ha ingannati buttandoci nell’arena disarmati.
    Giunto sui viali accostai la Panda al marciapiedi; avevo notato una ragazza dal viso dolcissimo che non doveva avere più di ventidue ventitré anni.
    “Come ti chiami?” le chiesi.
    “Maida.”
    “Quanti anni hai Maida?”
    “Diciotto.”
    Provai un fremito di compassione per quella fragile creatura, probabilmente incappata in qualche giro malavitoso e strappata agli affetti più cari per vendere la sua purezza in una lontana e squallida città italiana. No non sono uno schifoso, pensai, non la userò come ho usato tutte le altre puttane; la amerò se mi permetterà di amarla.
    “Quanto vuoi per sco… fare l’amore?” domandai.
    “Cinquantamila bocca figa. No culo.”
    “E in camera? Ce l’hai la camera?”
    “Camera centomila.”
    Andammo nel suo appartamento, un buco dove chissà quanti uomini – turpi derelitti come me – erano già passati. Era un angusto monolocale con un bagno sudicio e piccolissimo ed un letto a due piazze. Quest’ultimo era l’unico oggetto della stanza a sembrare pulito; tutt’intorno invece, pur senza notarsi chiaramente, si percepiva un senso di sporcizia, disordine e squallore. C’era puzza di piscio e fumo misti a profumo (forse quello usato dalla ragazza), tanto da rendere l’aria sgradevole, quasi nauseabonda.
    Volli parlare un po’ prima di consumare la prestazione insieme ad un’altra fetta di autostima, ma Maida non aveva voglia di ascoltarmi. Iniziai ad accarezzarla, lei si alzò dal letto di scatto e andò in bagno. Andai in bagno anch’io e la sorpresi china sul lavandino intenta a tirare della coca. Puah!, la coca: l’anno scorso con una prostituta nigeriana feci una figura terribile; non che mi importasse troppo fare figuracce con le puttane ma quella sera, sul mio Pandino, dopo aver tirato della fecola il mio gioiello non ne voleva sapere di alzarsi, era morto stecchito. A me quella roba fa quell’effetto lì, è per questo che non la uso mai se devo scopare.
    Maida mi chiese generosamente se volevo favorire e io ovviamente rifiutai. Tornammo in camera e cominciammo a spogliarci; tentai di baciarla ma lei si arrabbiò e respinse le mie labbra lontano dalla sua bocca. Stupida puttanella, pensai in quel momento, se solo fossi meno fredda e più accondiscendente potrei anche cambiarti questa tua vita di merda, farti uscire da questo schifo. Fantasticavo un’esistenza più decente per lei e per me, insieme; io salvavo la sua vita e davo una svolta alla mia, come in quelle favole che finiscono con il classico “e vissero tutti felici e contenti”. I miei sogni ad occhi aperti vennero bruscamente interrotti quando mi infilò un preservativo e cominciò a lavorare di bocca. Pochi istanti dopo la penetrai e me ne venni dopo pochi colpi mentre lei fingeva di godere. Tutto era finito, come finita era la mia dignità.
    Quando salii in macchina per tornare verso casa a vedere di recuperare Fetuso e Smoke, mi venne da piangere. Pensai a Lisa. Lisa è l’unica ragazza che considero mia amica; siamo cresciuti insieme, dall’asilo fino alle scuole superiori. Solo che mentre io sono sempre stato cotto di lei, lei mi ha sempre considerato come un fratello. Non ho mai capito come funzionano ‘ste cose da donne, fatto sta che la storia è questa: siamo diventati adulti e mentre io sono rimasto il povero innamorato non corrisposto che per campare fa l’operaio in una ditta che produce suole per scarpe, Lisa è diventata una stimata arredatrice che ha sposato Michele Bonfiglio, quel bullo di un nostro compagno delle superiori, avvocato, ricco, bello e tanto stronzo.
    Non so perché pensai a queste cose; a volte il passato ritorna a ricordare ai falliti che sono tali. “Se mi si guardasse per quello che ho in fondo al cuore, forse, potrei illuminare due sentieri sterrati e farne una strada lastricata d’oro” riflettei sostituendo Lisa con Maida nella mia mente.
    Mentre imboccavo un tratto di viale per immettermi in tangenziale, non vedo la Mercedes del Bonfiglio con lui alla guida che carica una Nigeria! Da non crederci, cioè, sapevo che era sempre stato un dongiovanni a cui bastava una strizzatina d’occhio per farsi  tutte le ragazze che voleva (e quante se ne era fatte!!!), ma adesso che era sposato con Lisa e aveva tre figlie piccole pensavo si fosse calmato. E poi a puttane non ce lo vedevo proprio, pensavo che uno come lui non sapesse neppure cosa fosse una prostituta. Guarda guarda Michelone: pensi al diavolo e spuntano le… corna… Povera Lisa! Gli sono stato dietro per un po’ con la Panda, poi ho messo la freccia, mi sono affiancato alla Mercedes e ho suonato il clacson; quando si è voltato posso assicurare che se avesse visto un fantasma avrebbe assunto un’espressione meno grottesca e spaventata. Gli ho strizzato l’occhio salutandolo, l’ho sorpassato e sono tornato verso il BarBaro.
    Anche se l’affetto e l’amicizia che ci lega – nonché, non posso negarlo, un briciolo di antipatia e invidia nei confronti di Michele – mi invoglia a farlo, a Lisa non dirò niente. Forse perderei anche il “premio di consolazione” dell’amicizia, forse non mi crederebbe mai, forse rovinerei solo una famiglia felice o pseudotale. E comunque non sono fatti miei, il buon marito può stare tranquillo. Lisa ha fatto la sua scelta, ha trovato l’uomo dei sogni, il buon partito, e credo che morirà ignara di quello che c’è sotto la maschera, ignara come Maida, ignara di ciò che le avrei potuto dare se mi avesse mostrato dolcezza, comprensione, amore. Ci sono talmente tante persone finte là fuori; basta abbassare un attimo il finestrino della Panda che l’odore di falsità invade l’abitacolo. Tra i miei pochi pregi, sono orgoglioso di avere almeno quello dell’onestà e della sincerità. Nessuna maschera può coprire quello che sono, uomo nudo, solo e deluso.
    Che strano, una volta messo piede dentro al BarBaro, rivisti Smoke e Fetuso, ero tornato di buon umore; una strana felicità mista a un forte senso di malinconia permeava il mio cuore. Mi sono sentito come il biglietto del primo premio della lotteria miliardaria smarrito dal possessore: varrei una fortuna, ma non verrò mai incassato.

UNA SERA AL BAR PINETA

Il cielo è terso, privo di nuvole. Il tramonto colora la città coi suoi pastelli rossi e arancio e marroni mentre tutto emana energia fuori, già, fuori, ma fuori dove? Dentro, seduto ad un tavolo del bar Pineta, intento a giocare a scala quaranta con Fabri, il Rosso e Cambogia tutto è statico, non c’è pathos. D’altra parte come potrebbe? Lo capisco solo dopo l’ennesima birra, la sesta forse. Al di là della vetrata, sulla strada, transitano ragazzi e ragazze, uomini, vecchi, bambini, storpi ed effeminati, puttane e barboni. Mentre scendo con due tris d’assi e uno di donne – scartando un re di picche – guardo fuori e mi soffermo col pensiero su quel pulsare di cosmica vitalità; persino l’ultimo derelitto sulla faccia della terra mi appare più fortunato di me all’esterno del Pineta.
    “Che cos’ho che non va?” mi domando osservando il jolly appena pescato che non mi consente, metafora della mia pedestre esistenza, di chiudere la partita una volta per tutte. Quattro carte in mano, un jolly e non riesco a vincere. Scarto un fante di cuori. Cos’ho dunque che non va? Cosa abbiamo che non funziona noi topi da bar che a quarantacinque anni ci sentiamo vecchi, apatici, stanchi come chi dalla vita ha ricevuto solo bastonate? Facciamo parte di una generazione perdente, come affermò una volta Cambogia: “La nostra ragazzi si chiama Generazione Inerzia”. Forse aveva ragione.
    Mi accendo una sigaretta, come se non ci fosse già abbastanza fumo in quei due metri quadrati che occupiamo io, il Rosso, Fabri e Cambogia, tutti occupati a giocare, in silenzio, fumando una sigaretta dopo l’altra, una birra dopo l’altra, un giorno dopo l’altro. Cosa significa giocare a carte? Passarsi il tempo? Perché abbiamo sprecato tutto quel tempo fino ad oggi (e continueremo a farlo) mentre là fuori, oltre l’opaco vetro il mondo pullula di opportunità? Le opportunità sono per chi se le crea, non per noi, uomini vinti dal tempo e dallo spazio: non abbiamo più scampo, imbelli scommettitori di spiccioli e birrette.
    Beppe, il titolare, ci avverte che tra dieci minuti chiude bottega. Gli dico che abbiamo quasi finito, un’altra birra per tutti e ce ne andiamo, offro io il giro ai ragazzi. Tocca di nuovo a me pescare: un altro jolly e, incredibile, non riesco ancora a chiudere. Sono troppo sfigato! O forse non sono bravo, fatto sta che pesca il Rosso e chiude la partita. “Ho vinto!” esclama l’amico. Mi alzo vacillante, trangugio tutto d’un fiato la birra che ha appena portato Beppe e dico: “No, non hai vinto. Nessuno ha vinto. Noi, Rosso, non si vince”.
    Esco dal bar Pineta avviandomi verso casa; la sera è fresca, si sta bene e si respira una brezza positiva: sembra che l’amore e la speranza, la felicità e tutto ciò che di bello c’è al mondo mi aspettino dietro l’angolo. Svolto l’angolo e ci trovo solo il desolato viale alberato che conduce all’appartamento dove abito. Tutto è un’illusione, l’alcol mi sta ingannando. Io sto invecchiando e ho paura. Dopo aver superato i venticinque anni ho avuto l’impressione che il tempo volasse via al ritmo di un anno ogni sei mesi e temo che sarà sempre più celere… Mah! Forse sono solo troppo ubriaco, troppo ubriaco anche per avere dei sogni e focalizzare una vita fatta su misura per me. Non chiedo tanto: una donna di poche pretese, casalinga e madre attenta, uno o due figli, un lavoro migliore del mio attuale di magazziniere, due soldi in più, un televisore con megaschermo per riunire gli amici a casa e seguire le partite della nostra squadra del cuore senza doverci rintanare nella bolgia del Pineta. Infine una vecchiaia tranquilla e appagata. No, non chiedo tanto alla vita o a quel famoso dio, se esiste. O a me stesso! Boh, ora so solo che non posso tornare a casa conciato così.
    Mi siedo su una panchina nell’attesa che evapori un po’ la sbronza. Mi sdraio. Il sonno alcolico mi trasporta in un mondo onirico abitato da mostri ed esseri demoniaci. Quando mi sveglio non c’è più nessuno in giro; è notte fonda e la prima cosa che mi passa per il cervello è che domani sarò troppo sobrio e impaurito per affrontare la vita. Per quelli come me, il Rosso, Cambogia, Fabri, per noi quarantacinquenni della Generazione Inerzia è più comodo vincere una partita a carte che non scommettere contro il destino per cercare di cambiarlo; per quelli come noi non ci sono mai state prospettive perché non abbiamo saputo (o errore ancora più grave: non abbiamo voluto) giocarci i jolly che la vita, sia pure infame e stronza finché si vuole, ci ha fatto pescare per strada ogni tanto.
    Mi accingo a varcare il portone del civico numero 21. E’ probabile che mia madre mi stia ancora aspettando davanti al televisore acceso (a me le carte, a lei la tv!). “Non ti preoccupare Mà, ero a giocare a scala con gli amici del Pineta” le dirò. Così se ne andrà a dormire serena e inconsapevole, come quell’uomo sprecato che è divenuto ormai suo figlio.


venerdì 10 febbraio 2012

A CALDO

Questo racconto sta per compiere dieci anni; lo scrissi nell'estate del 2002 di ritorno da un viaggio in Sardegna, terra splendida e affascinante quando non contaminata dal turismo di massa cafone e irrispettoso. Si parla di speranza e passione anche qui: speranza nell'amore (di e per una donna) e passione per la scrittura. Buona lettura.

A CALDO


Il treno avanzava lento e annoiato lungo la costa toscana verso casa. Lorenzo guardava fuori, con la testa appoggiata al vetro polveroso, la natura rigogliosa scorreva davanti ai suoi occhi verdi e sottili.
    Che bello viaggiare, pensava, che bello filare via senza meta, per il semplice gusto di andare. La vita è una lunga strada, che senso ha osservarla da una poltrona?
    La Sardegna lo aveva affascinato, stregato: la gente, i luoghi, i profumi. Si sentiva sardo da sempre. Forse lassù hanno sbagliato a farmi nascere e crescere in Emilia, si disse.
    Ma ancor più del posto, Lorenzo era rimasto incantato da Eleonora, splendida quarantenne che lo aveva ospitato a Cagliari per valutare la realizzazione di un ambizioso progetto letterario essendo a capo di una importante casa editrice.
    Rientrava a Bologna con in mano un importante contratto per la stesura di un romanzo e con qualcosa di più indefinibile, una ricchezza luminosa aggiunta al suo cuore. Pensava malinconicamente che una volta giunto a casa, dopo aver conosciuto Eleonora, le persone che facevano parte e che avrebbero fatto parte del suo ambiente, coloro che lo circondavano, gli sarebbero sembrate più insipide.
    All’andata si era imbarcato da Civitavecchia; sarebbe rimasto a Cagliari una settimana per discutere del romanzo e del contratto. Si era portato appresso due libri, “Belli e dannati” e “Viaggio al termine della notte”, anche se sapeva benissimo che mai e poi mai sarebbe riuscito a leggere. Lo considerava un suo grande difetto, ma quando era in viaggio non riusciva né a leggere né a scrivere; era troppo impegnato a leggere i nuovi mondi che lo accoglievano, anestetizzando per il momento la spinta creativa e la capacità di concentrazione sulle parole scritte. Gli sarebbe piaciuto leggere almeno qualche pagina di Celine visto che erano mesi che cercava la predisposizione giusta per quel libro, invece nulla, ancora un tentativo andato a vuoto.
    Il treno si fermò alla stazione di Grosseto. Salì una donna anziana, una tipa eccentrica con un vestito di seta marrone alquanto demodé ed i lunghi capelli bianchi qua e là ridicolizzati da posticce ciocche cremisi. Si mise a sedere di fronte a Lorenzo, estrasse dalla borsetta anni Ottanta un libro di Kahlil Gibran e si immerse profondamente nella lettura. Il giovane immaginò la donna una vecchia artista, forse una pittrice, una creatura balzana dalla grande solitudine che traspariva da un volto segnato dalle rughe e dall’emarginazione, emarginazione che ammanta l’esistenza di chi possiede una natura creativa.
    Scacciò il triste pensiero arrecatogli dalla signora e si abbandonò al ricordo di Eleonora. Dopo tre giorni di discussioni, approfondimenti, sguardi ammiccanti e sorrisi ingenui, si erano ritrovati a casa dell’editrice a fare l’amore. Disteso sul letto Lorenzo era incredulo; accanto aveva una donna che sin dal loro primo incontro gli aveva trasmesso un’energia particolare, misteriosa. Si erano amati altre volte nei giorni seguenti, in un climax passionale che li avrebbe portati alle soglie del paradiso se solo avessero potuto godere della compagnia reciproca per più tempo. Le loro anime erano entrate in simbiosi all’unisono con i loro corpi. I quindici anni che dividevano il giovane Lorenzo da Eleonora si azzeravano riportando il tempo, lo spazio, le emozioni e gli istinti ad uno stato primordiale di purezza assoluta.
    Era certo che non perché era stato amante di Eleonora era riuscito a firmare il contratto per il libro, però di tanto in tanto affiorava dall’inconscio la tormentosa possibilità che se tra loro due non fosse nata quella complicità affettiva e sessuale, ora sarebbe stato lì su quel treno senza progetti letterari da realizzare per l’imminente futuro.
    “Scusi, mi sa dire che ore sono?” chiese la stravagante signora che gli stava di fronte.
    “Le sei e cinque” rispose Lorenzo.
    Tra circa tre ore sarebbe arrivato a Bologna. Eleonora sarebbe rimasta lontana eppure eternamente dentro di lui. Finalmente avrebbe risolto, con quella firma in calce al contratto, molti dei suoi problemi economici. Era sereno, rilassato, confortato e refrigerato dal ricordo, anche se in un torrido giorno di fine giugno su quel treno faceva un caldo soffocante. Assaporava il gusto delle emozioni violente, emozioni a caldo, emozioni che il tempo non avrebbe mai raffreddato. Chiuse gli occhi e seppe. Seppe che in futuro avrebbe scritto grandi cose.

giovedì 2 febbraio 2012

ESPERIMENTI

Seguono alcuni di quelli che definisco "esperimenti", vecchi racconti improvvisati e impulsivi il cui leit motiv sembra essere la Morte. Nel primo racconto, la morte assume un significato negativo: morte dei sentimenti, morte dell'intelligenza, morte della cultura e delle proprie radici. Negli altri due invece, la morte diventa... vita! Buona lettura.


VATTELAPPESCA

 C’era una volta. Con queste parole Attila Vattelappesca cominciava ogni sua storia. Erano gli inizi del Novecento in un paesino del Reggiano noto come Torre Scudo. Attila era un anziano rapsodo di presunta origine ungherese e sbarcava il lunario grazie alle oblazioni – spesso sostituite da offerte di cibo – che i torrescudesi elargivano con simpatia a quel vegliardo, pronto ogni sera delle settimana, d’estate o d’inverno, con la pioggia o con il sole, a donare qualche momento di relax e intrattenimento nella piazza del paese dopo cena.
    Tutti stimavano e rispettavano Attila e anche se la maggior parte degli abitanti del piccolo centro emiliano erano contadini analfabeti, chiunque percepiva nelle parole del cantastorie un senso profondo di saggezza pur non carpendo sempre il significato di certi concetti e quello più immediato di molte parole.
    Torre Scudo contava all’epoca trecentododici abitanti, e otto famiglie su dieci erano impegnate nella coltivazione diretta della terra. Scoppiò la Grande Guerra e anche l’Italia entrò nel conflitto. Nel giro di pochi mesi Torre Scudo cambiò completamente fisionomia; infatti nei pressi del torrente Teresina sorse una delle più grandi fabbriche italiane specializzata nella produzione di filo spinato e badili, materiali utili per la costruzione di trincee. Il risultato fu che il novanta per cento dei lavoratori agricoli passò all’industria bellica, o meglio, filobellica; l’interesse della gente per le storie di Attila venne meno, le preoccupazioni e il duro lavoro in fabbrica – assai più duro di quello nei campi – esaurirono pian piano la voglia dei torrescudesi di uscire la sera. Il povero rapsodo si trovò presto a patire la fame. Certo, avrebbe potuto cambiare paese, ma sentiva dentro di sé una strana angoscia, il presentimento razionalmente immotivato, che ovunque fosse andato, nessuno avrebbe più ascoltato le sue parole.
    La prima guerra mondiale finì e il ritorno della pace ebbe la conseguenza di mandare la fabbrica in rovina; venne però acquistata da un facoltoso abitante di Torre Scudo che la trasformò in azienda agricola privata. Si diceva allora che costui, avendo lungamente viaggiato, fosse un ottimo conoscitore di quasi tutti i dialetti italiani e avesse sfruttato questa sua abilità per redigere un vocabolario che servì ai soldati italiani (ragazzi del Nord uniti a ragazzi del Sud separati però da grossi problemi linguistici) per meglio capirsi nelle trincee. Il capo del governo Salandra fece acquistare migliaia di copie del vocabolario e grazie a questa geniale trovata il poliglotta reggiano divenne ricco.
    I torrescudesi tornarono così a lavorare la terra, ma mentre prima coltivavano appezzamenti di loro proprietà, ora si ritrovarono alle dipendenze di un grosso latifondista che aveva investito i guadagni di un conflitto estremamente proficuo per quel che lo riguardava. Attila sperò che la chiusura della fabbrica di badili e filo spinato seguita all’armistizio avrebbe riportato le famiglie in piazza. Così fu, ma nessuno era più interessato ad ascoltare quel bizzarro ottuagenario. Egli notò una luce strana negli occhi di tutte quelle persone: i loro atteggiamenti cambiarono drasticamente, tanto che alcuni iniziarono a disprezzarlo; gente che lo aveva sempre aiutato elemosinandogli anche solo un pezzetto di pane ora lo evitava, altri lo irridevano con crescente pervicacia e un giorno una giovane madre gli sputò addirittura in faccia. Non si capacitava del fatto che i torrescudesi, un tempo amici e entusiasti spettatori delle sue recite, lo trattassero adesso come un appestato. Volle individuare un capro espiatorio nell’avanzare strisciante del progresso, ma non ne era così sicuro. Intuiva qualcos’altro nell’aria, qualcosa di più subdolo, virulento e pericoloso; il mondo avrebbe preso un ritmo troppo frenetico e la sua intelligenza gli permise di farsi un’idea sul futuro. Rabbrividì.
    Una notte di inizio estate dei primi anni Venti, Attila Vattelappesca venne avvicinato nella piazza di Torre da Tonino, il figlio di Ilde e Carletto Donini. Era accompagnato dai due genitori, forse le sole persone rimaste che lo avessero ancora in simpatia tanto da fargli quel po’ di beneficenza che gli permetteva di tirare avanti negli ultimi anni di una vita vissuta in compagnia dell’immaginazione e del rispetto per gli altri esseri viventi.
    “Signor Attila” disse Ilde, “Tonino ha tanto insistito per ascoltare la storia di “Fiorello il cammello” che abbiamo dovuto portarlo qui da voi, altrimenti ci faceva diventare matti. Però se non volete raccontargliela, non c’è problema, non vogliamo disturbarvi.”
    A queste parole Attila Vattelappesca sorrise; era un sorriso infantile e puro come solo il sorriso di un bambino può essere.
    “Certo che la racconterò. E con tanto piacere” rispose il cantastorie.
    Era tanto tempo che non narrava più le sue avventure in prosa o in versi e da qualche tempo aveva programmato di tornare da dove era venuto, benché nessuno sapesse da dove venisse realmente. Quella, pensò, sarebbe stata la sua ultima interpretazione. “Fiorello il cammello” era un apologo molto amato dai suoi ascoltatori in passato. Parlava di Fiorello, un cammello dell’Asia (quelli con due gobbe) che si perdeva nel deserto e si ritrovava in un’oasi abitata solo da cammelli dell’Africa (i dromedari, con una sola gobba). Inizialmente emarginato e schernito da tutti, diventò il re dell’oasi, da tutti rispettato, quando un ricco arabo si stabilì nell’oasi e fece di Fiorello il suo cammello personale. Tonino, che aveva otto anni, aveva sentito spesso i suoi genitori raccontare quella storia prima di addormentarsi la sera, ma quando seppe che loro l’avevano imparata da quel vecchietto triste che passeggiava tutto il giorno per Torre Scudo e che quando lui la raccontava era come se i cammelli si materializzassero veramente nella piazza, non aveva più smesso di tormentare mamma e papà per farsi portare da Attila.
    Gli anni e la delusione avevano consumato il rapsodo rendendolo l’ombra di se stesso. Non aveva più molto da campare, però quella sera la felicità, apparsa con le sembianze di Tonino e dei suoi genitori, era tornata a bussare al suo cuore. Ilde, Carletto e il figliolo si sedettero sui gradini di pietra dell’ingresso della Trattoria Strozzi, mentre Attila, eretto come un giovane aitante attaccò con il suo commiato: “C’era una volta…”


APOLOGIA DELLA MORTE


La scena si svolge all’interno di una camera da letto. L’appartamento è quello di Zoe, pittrice di belle speranze già ben inserita nel mondo accademico della sua città. Insieme a lei, sotto le coperte dell’ampio matrimoniale, Mario si sta godendo distrattamente una sigaretta post coito. Mario è un noto critico d’arte che ha saputo investire il suo istrionico carattere e l’eccellente facondia in numerose ospitate al Maurizio Costanzo Show. Zoe è cinica: sa che una buona impressione – sia sotto le coperte, sia mostrando la propria arguzia nonché il talento già per altro riconosciuto da più parti – le potranno permettere di scalare molto più velocemente i gradini del successo. Ma allo stesso tempo, Zoe non è disposta a sacrificare l’ispirazione, l’abilità e la passione sull’altare della Morte…



Zoe: Intendimi Mario, io non sono cattiva, ma quando certi personaggi intralciano il mio lavoro a priori, tentando di stroncare le mie opere senza neppure averle viste, arrivo anche a dire atrocità del tipo: “Se muori vengo a pisciare sulla tua tomba!”. Da’ i brividi vero? Tutto sommato analizzando da un punto di vista pedagogico la nostra cultura, è comprensibile scandalizzarsi per una frase del genere; sin da mocciosi ci insegnano che la morte è un argomento tabù (guai a nominare lei, le emorroidi e il nome di dio invano), però io l’ho presa per mano e con lei ho passeggiato attraverso la vita e attraverso i miei quadri, facendomi beffe proprio di quella cultura di morte che i presunti maestri di vita pretendono di insegnarci.

Zoe è logorroica, entusiasta di poter ammaliare con quei discorsi per lei tanto profondi e intelligenti il famoso critico. Mario la ascolta silenzioso, ma sembra assorto in altri pensieri.

Mario (mentre spegne la sigaretta nel posacenere sul comodino): Ti seguo, vai pure avanti.

Zoe: Non vorrei mai essere tacciata di blasfemia, ma partiamo da qui intanto: tutte le religioni sono basate sulla cultura della morte. Mostrano ai fededipendenti una facciata solare per nascondere l’argilla sulla quale poggiano le loro fondamenta. Hanno fatto e sempre faranno più morti le religioni di qualsiasi altra dottrina, cataclisma, malattia o droga nel mondo.

Mario (guardandosi il pene floscio e pensando all’interminabile periodo refrattario che non gli consente a breve un’altra erezione per far tacere Zoe e tentare una decorosa tripletta  amatoria): Sì sì, non hai tutti i torti.

Zoe: Il progresso! Il progresso sotto tutte le sue forme ha insita una componente di morte non indifferente. Nessuno può mettere in dubbio che porti benessere, stabilità politica, sociale, economica, ma – tralasciando di chiosare sul tema della devastazione ambientale – per assurdo induce quasi proditoriamente l’individuo allo smarrimento di sé, rubandogli identità e contatto con il tempo e con lo spazio: in pratica non c’è mai abbastanza tempo quando in teoria dovrebbe essercene di più a nostra disposizione; e non c’è più spazio per muoversi liberamente. Anche se non ce ne accorgiamo siamo circondati da confini e dogane.

Zoe è sempre più presa dall’argomento anche se preferirebbe una disquisizione bilaterale con Mario, il quale appare ora ancor più assente. Zoe gli dà un simpatico buffetto sulla guancia per ridestarlo.

Mario (leggermente sorpreso da quel gesto): Parla pure, ti ascolto.

Zoe (accennando un sorriso): Il lavoro si basa sulla morte. Sgobbare al servizio di qualcuno, svolgendo compiti alienanti che annullano le proprie difese psicoimmunitarie significa morire. E per chi? Per il bene della comunità!!! Robe da pazzi. “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”: paese di schiavisti, dico io, altro che democrazia! E gli schiavi che compongono questo crogiolo laico-teocratico-oligarchico sono ancor più incatenati – metaforicamente parlando – dei veri schiavi dei secoli passati, perché questi ultimi erano in una condizione coatta, mentre i primi accettano il loro stato passivamente pur potendo fuggire. La differenza è notevolmente a discapito del lavoratore sostenitore della patria.

Con lo scilinguagnolo sempre più sciolto Zoe è un fiume in piena che dà l’impressione di straripare da un momento all’altro. Mario accende un’altra sigaretta per mascherare quell’apatia che anche Zoe ha notato.

Mario: Mmmmm!

Zoe: La politica con i suoi burattinai è, da destra a sinistra, una congrega di assassini. Divulga morte per interessi personali. Se mi rendessi conto che esiste qualche politico, sia esso un ex fascista, un ex democristiano o un ex comunista, non assorbito nel Death System probabilmente tenterei di individuare e votare il meno peggio e forse non avvertirei più quell’idiosincrasia parossistica nei confronti dei partiti che provo attualmente. La politica adotta questa tattica deplorevole per ottenere consensi: più morti ci sono, ovvero più ignoranza regna, più approvazione si ottiene; è una verità assiomatica.
Non parliamo poi di quello che non fa l’informazione per riscuotere interesse. I mass-media implorano la morte, la Dea Morte, per ottenere quello che vogliono. E quello che vogliono è condizionarci l’esistenza…

Mario: Mmmmmm!

Zoe: Quando poi politica ed informazione passeggiano a braccetto, beh, mi vien da pensare che il Cile di Pinochet non era poi così diverso da qui.
Dico solo questo e poi concludo questa apparente invettiva che è in realtà una perorazione in difesa della morte, un elogio alle sue proprietà ispiratrici: se tutta questa morte (morte della ragione, morte dei sentimenti, morte dei sogni, morte della passione…) non esistesse, io non sarei né una pittrice, né una donna, né un essere umano; sarei solo una ics, un nulla. Ciò perché non avrei stimoli. Per cui grazie morte, grazie di esistere. Grazie per la vita che mi doni…

Mario (titubante): Mmmmmmm! Zoe, mi chiedevo se… se… no nulla, concludi, concludi pure.

Zoe fa una breve pausa e intanto, vedendo Mario pensieroso, si crede certa di averlo impressionato, centrando in pieno il bersaglio.

Zoe: Beh ho praticamente finito. Aggiungo solamente che solo quando si parla di sesso non tollero interferenze con la morte. Quando la morte entra nel mio letto – e qualche volta è capitato – perdo l’ispirazione per settimane intere. Capisci? Certi uomini sanno solo parlare e non sanno scopare; io di quelli non me ne faccio niente. A cosa serve un uomo che non sa scopare?

Mario: Mmmmmmmmm! Boh!

Zoe: Come mai sei così pensieroso e serio? Quando sei in televisione sei tutt’altra persona. Cosa pensi della mia celebrazione della morte?

Mario: Mah! Non saprei, a dire il vero… non saprei proprio. Non ho seguito molto bene.Volevo chiederti piuttosto se… mmmmmmmmm… ti è piaciuto farlo con me? Sei venuta?



A questo punto il sipario si chiude. Si riesce a scorgere nella penombra il volto di Zoe. Almeno credo che sia Zoe; le ombre riflesse sul viso della ragazza deformano la sua fisionomia. Si fatica a distinguere la sua espressione per cui non sapremo mai cosa sia successo in quell’attimo. L’autore di questa piece teatrale (che io ho compendiato riducendola all’essenziale per motivi di tempo e di… spazio, come diceva la protagonista) aveva probabilmente pensato a un eloquente gioco di ellissi per concludere la sua opera, ma la pessima illuminazione del teatro gli ha rovinato tutti e cinque gli atti del suo “Apologia della morte”. Qualcuno fischia in platea, qualcun altro applaude. A me è piaciuta molto Zoe e visto che ognuno può crearsi il suo finale (non essendo chiaro quello dell’autore), mi piace pensare che la ragazza abbia messo da parte il cinismo e l’arrivismo e in un impeto d’orgoglio abbia scacciato… la Morte dal suo letto. Poi, visto che rimango nel regno della fantasia, voglio immaginare Zoe che si innamora di me che anche se non sono bravo a parlare e scrivo ancora peggio, almeno le porterei della vita dentro l’ alcova. Uh che bel finale, uh che bello!



LA METAMORFOSI DI NIK AMEBA NEL GIORNO DEL MATRIMONIO DI GARRONE


Quella sera Nik Ameba si sentiva un po’ depresso. Sullo schermo televisivo stavano scorrendo le immagini del Grande Fratello (guardava quel programma, anche se lo annoiava tremendamente, per poter partecipare alle conversazioni degli amici senza sfigurare) mentre la sua mente vagava su ben altri canali. Volto livido, emaciato, sedeva sul divano del salotto sorseggiando una camomilla, arresosi al fatto di dover passare una notte in bianco a causa dei crampi allo stomaco e del mal di testa diretta conseguenza della robusta sbronza che si era preso il pomeriggio al pranzo di ricevimento per il matrimonio dell’amico Garrone. Ricordava vagamente di aver importunato una ragazza e di essersi ritrovato disteso per terra . “Forse non ho mal di testa e di stomaco solo per colpa dell’alcol” pensò per un momento. L’ultima cosa che rammentava era lo sguardo dispiaciuto di Garrone mentre due o tre ragazzi lo riaccompagnavano alla macchina; pure chi lo avesse riportato a casa era un’incognita. Non ricordava nemmeno - nel climax di improvvise reminiscenze che lo stavano assillando - da quanto tempo aveva iniziato a ridursi sempre più frequentemente in uno stato al limite del pietoso: potevano essere sei, sette, otto mesi, forse un anno. Il motivo lo intuiva vagamente, anche se non aveva indagato per scoprirne le cause: si era rassegnato.
    Mandò giù l’ultimo sorso di camomilla e spense il televisore con un senso di sollievo, ormai estenuato dalla crescente, soverchia stupidità che scaturiva da Big Brother e dintorni. Alzò gli occhi sulla parete dietro al televisore; in concomitanza con l’inizio della sua crisi, sei, sette, otto mesi, forse un anno fa, Nik aveva iniziato ad appassionarsi alla fotografia, in particolare all’autoritratto: con l’autoscatto si ritraeva ogni giorno in decine di primi piani, immortalandosi in espressioni apparentemente sempre uguali che raramente differivano l’una dall’altra. In quel momento la parete di fronte a lui era completamente ricoperta di cornici contenenti la faccia smunta e quasi spettrale di Nik Ameba. Stava pensando di non essersi mai posto neppure lontanamente il perché di quella strana mania quando, ad interrompere il suo spleen, bussarono alla porta.
    “Oooooh!” esclamò Nik incapace di contenere lo stupore causato da quella sublime visione. Era la donna più affascinante che avesse mai visto in vita sua; gli si presentò.
    “Ciao Nik. Sono Regina. Tu non mi conosci ma ti seguo da tempo, mi interessi. Mi sono infatuata di te all’incirca un anno fa; credo sia giunta l’ora di venire allo scoperto.”
    Nik era scosso dall’avvenenza e dall’esuberanza di quella meravigliosa valchiria dai lunghi capelli biondi e dagli occhi di ghiaccio.
    “Da quando mi sono accorta di te” proseguì Regina, “ti seguo tutti i giorni; non mi crederai ma è così. Ti voglio, voglio che tu venga via con me!”
    Il ragazzo la guardava allibito senza riuscire a pronunziar parola.
    “Non c’è bisogno che parli” riprese. “Presto tornerò. Ti lascio il tempo di deciderti e prepararti.”
    “Chi sei?” riuscì a chiedere Nik. “Dove vuoi portarmi e perché sembri così certa che io ti segua?”
    “Non posso dirti nulla. Sappi però che ti porterò in un posto tranquillo, lontano, dove potremo rimanere per sempre soli, tu ed io. Pensaci Nik! Sai bene chi sono!”
    Udendo quelle ultime parole, si sentì mancare. Perse i sensi e cadde disteso sull’impiantito. Passò qualche istante e si ridestò con le parole “Sai bene chi sono!” che gli riecheggiavano in testa.   Dunque era stato un sogno? Ebbe appena il tempo di prendere coscienza di ciò che era avvenuto (Nel sogno? Nella realtà?) che la porta d’ingresso si chiuse, lasciandogli intravedere una lunga gonna nera che, svolazzando, scompariva nell’oscurità della sera. Ripiombò nel suo universo di elucubrazioni, un po’ frastornato ma deciso a scoprire chi fosse Regina e cosa avesse voluto dire con quelle poche frasi che avevano portato tanto scompiglio in quello che sarebbe dovuto essere un allegro giorno di festeggiamenti e spensieratezza.
    Nik si stava avvicinando a varcare la soglia dei trent’anni a cavallo di un passato felice e sereno; non riusciva quindi a capire quale ostacolo si fosse presentato a deviare la sua esistenza. Perché non trovava spiragli nel muro (di autoritratti?) che gli si ergeva davanti? Nelle decine di volti che lo stavano fissando non si scorgeva ombra di espressività: “Vorrà pur dire qualcosa!?” pensò. Era convinto non gli mancasse nulla: grazie a genitori benestanti, anzi molto ricchi, poteva permettersi quello che voleva a livello economico; il lavoro di vicedirettore dell’agenzia grafica del padre lo appagava non poco dal punto di vista professionale; aveva una ragazza da sei anni e anche se negli ultimi tempi per colpa sua il rapporto non era più rose e fiori come un tempo, stava bene con lei e la prospettiva di un imminente matrimonio era concreta. La amava molto eppure si era trovato poco prima a desiderare quella Regina come mai aveva desiderato nulla in cuor suo; sentiva di conoscerla già da diversi mesi, benché non la avesse mai vista, e già da tempo lui sapeva che un dì sarebbe apparsa a reclamarlo. Nonostante si sforzasse non riusciva a trovare il bandolo della matassa, non individuava il vorace verme che stava divorando i suoi giorni così velocemente.
    All’improvviso, come lo scolaretto che dopo interminabili tentativi e scervellamenti riesce a risolvere il problema di matematica quasi per caso, Nik comprese il significato recondito negli autoritratti. Quei volti, quelle espressioni fatue e seriali erano il compendio di una vita di APPARENZE. Ecco la parola chiave che cercava per aprire la cassaforte dell’inquietudine. Capiva così di aver vissuto fino a quel momento una vita di quantità e non di sostanza, indossando maschere diverse per ogni occasione. Dentro di lui aveva ceduto uno diga che stava annegandogli le emozioni più profonde, sentimenti che censurava per piacere ma non per piacersi. APPARIRE era stato il suo marchio di fabbrica per anni e anni, nel lavoro come in società e in famiglia; persino in compagnia di se stesso, nei momenti di solitudine. Ora provava il pressante e urgente bisogno di succhiare purezza dal seno dell’ESSERE.
    Si diresse verso il muro di fotografie. Staccò la più datata, un autoritratto risalente a circa un anno prima. Immaginò quel viso sulla lapide della sua tomba e subito dopo ebbe un accesso di ribellione; il meccanismo inceppato riprendeva a funzionare grazie a quel quid che gli avrebbe riempito il vuoto corrosivo del suo modo di vivere precedente. Si affacciò alla finestra del salotto che dava sul panorama della città, una tranquilla città al tramonto, e rifletté su quanto capzioso e frivolo fosse il mondo che lo aveva da sempre attratto. Sentì un brivido violento corrergli lungo la schiena e percepì che poteva ancora lottare contro il Nulla. Pensò: “Sì, vale proprio la pena vivere”. Compì allora un gesto eclatante e apparentemente insensato: staccò la spina del televisore e con una pedata ben assestata mandò in frantumi lo schermo, poi gettò fuori dalla finestra la cornice con l’autoritratto che teneva in mano, lontano, tra il labirinto di vicoli della città in procinto di addormentarsi. Lui no, non voleva addormentarsi. Quella notte sarebbe stato sveglio a crogiolarsi sugli allori della rivincita e della rinascita. La splendida creatura che lo aveva ammaliato poco tempo prima era tornata indossando un funereo abito nero e Nik Ameba le aveva chiuso la porta in faccia. Aveva ancora tempo e una nuova vita da cominciare.