Seguono alcuni di quelli che definisco "esperimenti", vecchi racconti improvvisati e impulsivi il cui leit motiv sembra essere la Morte. Nel primo racconto, la morte assume un significato negativo: morte dei sentimenti, morte dell'intelligenza, morte della cultura e delle proprie radici. Negli altri due invece, la morte diventa... vita! Buona lettura.
VATTELAPPESCA
C’era
una volta. Con queste parole Attila Vattelappesca cominciava ogni sua storia.
Erano gli inizi del Novecento in un paesino del Reggiano noto come Torre Scudo.
Attila era un anziano rapsodo di presunta origine ungherese e sbarcava il lunario
grazie alle oblazioni – spesso sostituite da offerte di cibo – che i
torrescudesi elargivano con simpatia a quel vegliardo, pronto ogni sera delle
settimana, d’estate o d’inverno, con la pioggia o con il sole, a donare qualche
momento di relax e intrattenimento nella piazza del paese dopo cena.
Tutti stimavano e rispettavano Attila e
anche se la maggior parte degli abitanti del piccolo centro emiliano erano
contadini analfabeti, chiunque percepiva nelle parole del cantastorie un senso
profondo di saggezza pur non carpendo sempre il significato di certi concetti e
quello più immediato di molte parole.
Torre Scudo contava all’epoca
trecentododici abitanti, e otto famiglie su dieci erano impegnate nella
coltivazione diretta della terra. Scoppiò la Grande Guerra e anche l’Italia
entrò nel conflitto. Nel giro di pochi mesi Torre Scudo cambiò completamente
fisionomia; infatti nei pressi del torrente Teresina sorse una delle più grandi
fabbriche italiane specializzata nella produzione di filo spinato e badili,
materiali utili per la costruzione di trincee. Il risultato fu che il novanta
per cento dei lavoratori agricoli passò all’industria bellica, o meglio,
filobellica; l’interesse della gente per le storie di Attila venne meno, le
preoccupazioni e il duro lavoro in fabbrica – assai più duro di quello nei
campi – esaurirono pian piano la voglia dei torrescudesi di uscire la sera. Il
povero rapsodo si trovò presto a patire la fame. Certo, avrebbe potuto cambiare
paese, ma sentiva dentro di sé una strana angoscia, il presentimento
razionalmente immotivato, che ovunque fosse andato, nessuno avrebbe più
ascoltato le sue parole.
La prima guerra mondiale finì e il ritorno
della pace ebbe la conseguenza di mandare la fabbrica in rovina; venne però
acquistata da un facoltoso abitante di Torre Scudo che la trasformò in azienda
agricola privata. Si diceva allora che costui, avendo lungamente viaggiato,
fosse un ottimo conoscitore di quasi tutti i dialetti italiani e avesse
sfruttato questa sua abilità per redigere un vocabolario che servì ai soldati
italiani (ragazzi del Nord uniti a ragazzi del Sud separati però da grossi
problemi linguistici) per meglio capirsi nelle trincee. Il capo del governo
Salandra fece acquistare migliaia di copie del vocabolario e grazie a questa
geniale trovata il poliglotta reggiano divenne ricco.
I torrescudesi tornarono così a lavorare la
terra, ma mentre prima coltivavano appezzamenti di loro proprietà, ora si
ritrovarono alle dipendenze di un grosso latifondista che aveva investito i
guadagni di un conflitto estremamente proficuo per quel che lo riguardava.
Attila sperò che la chiusura della fabbrica di badili e filo spinato seguita
all’armistizio avrebbe riportato le famiglie in piazza. Così fu, ma nessuno era
più interessato ad ascoltare quel bizzarro ottuagenario. Egli notò una luce
strana negli occhi di tutte quelle persone: i loro atteggiamenti cambiarono
drasticamente, tanto che alcuni iniziarono a disprezzarlo; gente che lo aveva
sempre aiutato elemosinandogli anche solo un pezzetto di pane ora lo evitava,
altri lo irridevano con crescente pervicacia e un giorno una giovane madre gli
sputò addirittura in faccia. Non si capacitava del fatto che i torrescudesi, un
tempo amici e entusiasti spettatori delle sue recite, lo trattassero adesso
come un appestato. Volle individuare un capro espiatorio nell’avanzare
strisciante del progresso, ma non ne era così sicuro. Intuiva qualcos’altro
nell’aria, qualcosa di più subdolo, virulento e pericoloso; il mondo avrebbe
preso un ritmo troppo frenetico e la sua intelligenza gli permise di farsi
un’idea sul futuro. Rabbrividì.
Una notte di inizio estate dei primi anni
Venti, Attila Vattelappesca venne avvicinato nella piazza di Torre da Tonino,
il figlio di Ilde e Carletto Donini. Era accompagnato dai due genitori, forse
le sole persone rimaste che lo avessero ancora in simpatia tanto da fargli quel
po’ di beneficenza che gli permetteva di tirare avanti negli ultimi anni di una
vita vissuta in compagnia dell’immaginazione e del rispetto per gli altri
esseri viventi.
“Signor Attila” disse Ilde, “Tonino ha
tanto insistito per ascoltare la storia di “Fiorello il cammello” che abbiamo
dovuto portarlo qui da voi, altrimenti ci faceva diventare matti. Però se non
volete raccontargliela, non c’è problema, non vogliamo disturbarvi.”
A queste parole Attila Vattelappesca
sorrise; era un sorriso infantile e puro come solo il sorriso di un bambino può
essere.
“Certo che la racconterò. E con tanto
piacere” rispose il cantastorie.
Era tanto tempo che non narrava più le sue
avventure in prosa o in versi e da qualche tempo aveva programmato di tornare
da dove era venuto, benché nessuno sapesse da dove venisse realmente. Quella,
pensò, sarebbe stata la sua ultima interpretazione. “Fiorello il cammello” era
un apologo molto amato dai suoi ascoltatori in passato. Parlava di Fiorello, un
cammello dell’Asia (quelli con due gobbe) che si perdeva nel deserto e si
ritrovava in un’oasi abitata solo da cammelli dell’Africa (i dromedari, con una
sola gobba). Inizialmente emarginato e schernito da tutti, diventò il re
dell’oasi, da tutti rispettato, quando un ricco arabo si stabilì nell’oasi e
fece di Fiorello il suo cammello personale. Tonino, che aveva otto anni, aveva
sentito spesso i suoi genitori raccontare quella storia prima di addormentarsi
la sera, ma quando seppe che loro l’avevano imparata da quel vecchietto triste
che passeggiava tutto il giorno per Torre Scudo e che quando lui la raccontava
era come se i cammelli si materializzassero veramente nella piazza, non aveva
più smesso di tormentare mamma e papà per farsi portare da Attila.
Gli anni e la delusione avevano consumato
il rapsodo rendendolo l’ombra di se stesso. Non aveva più molto da campare,
però quella sera la felicità, apparsa con le sembianze di Tonino e dei suoi
genitori, era tornata a bussare al suo cuore. Ilde, Carletto e il figliolo si
sedettero sui gradini di pietra dell’ingresso della Trattoria Strozzi, mentre
Attila, eretto come un giovane aitante attaccò con il suo commiato: “C’era una
volta…”
APOLOGIA DELLA MORTE
La scena si svolge all’interno di una camera da letto.
L’appartamento è quello di Zoe, pittrice di belle speranze già ben inserita nel
mondo accademico della sua città. Insieme a lei, sotto le coperte dell’ampio
matrimoniale, Mario si sta godendo distrattamente una sigaretta post coito.
Mario è un noto critico d’arte che ha saputo investire il suo istrionico
carattere e l’eccellente facondia in numerose ospitate al Maurizio Costanzo
Show. Zoe è cinica: sa che una buona impressione – sia sotto le coperte, sia
mostrando la propria arguzia nonché il talento già per altro riconosciuto da
più parti – le potranno permettere di scalare molto più velocemente i gradini
del successo. Ma allo stesso tempo, Zoe non è disposta a sacrificare l’ispirazione,
l’abilità e la passione sull’altare della Morte…
Zoe: Intendimi Mario, io non sono cattiva, ma quando
certi personaggi intralciano il mio lavoro a priori, tentando di stroncare le
mie opere senza neppure averle viste, arrivo anche a dire atrocità del tipo:
“Se muori vengo a pisciare sulla tua tomba!”. Da’ i brividi vero? Tutto sommato
analizzando da un punto di vista pedagogico la nostra cultura, è comprensibile
scandalizzarsi per una frase del genere; sin da mocciosi ci insegnano che la
morte è un argomento tabù (guai a nominare lei, le emorroidi e il nome di dio
invano), però io l’ho presa per mano e con lei ho passeggiato attraverso la
vita e attraverso i miei quadri, facendomi beffe proprio di quella cultura di
morte che i presunti maestri di vita pretendono di insegnarci.
Zoe è logorroica, entusiasta di poter ammaliare con
quei discorsi per lei tanto profondi e intelligenti il famoso critico. Mario la
ascolta silenzioso, ma sembra assorto in altri pensieri.
Mario (mentre spegne la sigaretta nel posacenere sul
comodino): Ti seguo, vai pure avanti.
Zoe: Non vorrei mai essere tacciata di blasfemia, ma
partiamo da qui intanto: tutte le religioni sono basate sulla cultura della
morte. Mostrano ai fededipendenti una facciata solare per nascondere
l’argilla sulla quale poggiano le loro fondamenta. Hanno fatto e sempre faranno
più morti le religioni di qualsiasi altra dottrina, cataclisma, malattia o
droga nel mondo.
Mario (guardandosi il pene floscio e pensando
all’interminabile periodo refrattario che non gli consente a breve un’altra
erezione per far tacere Zoe e tentare una decorosa tripletta amatoria): Sì sì, non hai tutti i torti.
Zoe: Il progresso! Il progresso sotto tutte le sue forme
ha insita una componente di morte non indifferente. Nessuno può mettere in
dubbio che porti benessere, stabilità politica, sociale, economica, ma –
tralasciando di chiosare sul tema della devastazione ambientale – per assurdo
induce quasi proditoriamente l’individuo allo smarrimento di sé, rubandogli
identità e contatto con il tempo e con lo spazio: in pratica non c’è mai
abbastanza tempo quando in teoria dovrebbe essercene di più a nostra
disposizione; e non c’è più spazio per muoversi liberamente. Anche se non ce ne
accorgiamo siamo circondati da confini e dogane.
Zoe è sempre più presa dall’argomento anche se
preferirebbe una disquisizione bilaterale con Mario, il quale appare ora ancor
più assente. Zoe gli dà un simpatico buffetto sulla guancia per ridestarlo.
Mario (leggermente sorpreso da quel gesto): Parla pure,
ti ascolto.
Zoe (accennando un sorriso): Il lavoro si basa sulla
morte. Sgobbare al servizio di qualcuno, svolgendo compiti alienanti che
annullano le proprie difese psicoimmunitarie significa morire. E per chi? Per
il bene della comunità!!! Robe da pazzi. “L’Italia è una repubblica democratica
fondata sul lavoro”: paese di schiavisti, dico io, altro che democrazia! E gli
schiavi che compongono questo crogiolo laico-teocratico-oligarchico sono ancor
più incatenati – metaforicamente parlando – dei veri schiavi dei secoli
passati, perché questi ultimi erano in una condizione coatta, mentre i primi
accettano il loro stato passivamente pur potendo fuggire. La differenza è
notevolmente a discapito del lavoratore sostenitore della patria.
Con lo scilinguagnolo sempre più sciolto Zoe è un
fiume in piena che dà l’impressione di straripare da un momento all’altro.
Mario accende un’altra sigaretta per mascherare quell’apatia che anche Zoe ha
notato.
Zoe: La politica con i suoi burattinai è, da destra a
sinistra, una congrega di assassini. Divulga morte per interessi personali. Se
mi rendessi conto che esiste qualche politico, sia esso un ex fascista, un ex
democristiano o un ex comunista, non assorbito nel Death System probabilmente
tenterei di individuare e votare il meno peggio e forse non avvertirei più
quell’idiosincrasia parossistica nei confronti dei partiti che provo
attualmente. La politica adotta questa tattica deplorevole per ottenere
consensi: più morti ci sono, ovvero più ignoranza regna, più approvazione si
ottiene; è una verità assiomatica.
Non parliamo poi di quello che non fa l’informazione per
riscuotere interesse. I mass-media implorano la morte, la Dea Morte, per ottenere
quello che vogliono. E quello che vogliono è condizionarci l’esistenza…
Zoe: Quando poi politica ed informazione passeggiano a
braccetto, beh, mi vien da pensare che il Cile di Pinochet non era poi così
diverso da qui.
Dico solo questo e poi concludo questa apparente
invettiva che è in realtà una perorazione in difesa della morte, un elogio alle
sue proprietà ispiratrici: se tutta questa morte (morte della ragione, morte
dei sentimenti, morte dei sogni, morte della passione…) non esistesse, io non
sarei né una pittrice, né una donna, né un essere umano; sarei solo una ics, un
nulla. Ciò perché non avrei stimoli. Per cui grazie morte, grazie di esistere.
Grazie per la vita che mi doni…
Mario (titubante): Mmmmmmm! Zoe, mi chiedevo se… se… no
nulla, concludi, concludi pure.
Zoe fa una breve pausa e intanto, vedendo Mario
pensieroso, si crede certa di averlo impressionato, centrando in pieno il
bersaglio.
Zoe: Beh ho praticamente finito. Aggiungo solamente che
solo quando si parla di sesso non tollero interferenze con la morte. Quando la
morte entra nel mio letto – e qualche volta è capitato – perdo l’ispirazione
per settimane intere. Capisci? Certi uomini sanno solo parlare e non sanno
scopare; io di quelli non me ne faccio niente. A cosa serve un uomo che non sa
scopare?
Zoe: Come mai sei così pensieroso e serio? Quando sei in
televisione sei tutt’altra persona. Cosa pensi della mia celebrazione della
morte?
Mario: Mah! Non saprei, a dire il vero… non saprei
proprio. Non ho seguito molto bene.Volevo chiederti piuttosto se… mmmmmmmmm… ti
è piaciuto farlo con me? Sei venuta?
A questo punto il sipario si chiude. Si riesce a
scorgere nella penombra il volto di Zoe. Almeno credo che sia Zoe; le ombre
riflesse sul viso della ragazza deformano la sua fisionomia. Si fatica a distinguere
la sua espressione per cui non sapremo mai cosa sia successo in quell’attimo.
L’autore di questa piece teatrale (che io ho compendiato riducendola
all’essenziale per motivi di tempo e di… spazio, come diceva la protagonista)
aveva probabilmente pensato a un eloquente gioco di ellissi per concludere la
sua opera, ma la pessima illuminazione del teatro gli ha rovinato tutti e
cinque gli atti del suo “Apologia della morte”. Qualcuno fischia in platea,
qualcun altro applaude. A me è piaciuta molto Zoe e visto che ognuno può
crearsi il suo finale (non essendo chiaro quello dell’autore), mi piace pensare
che la ragazza abbia messo da parte il cinismo e l’arrivismo e in un impeto
d’orgoglio abbia scacciato… la
Morte dal suo letto. Poi, visto che rimango nel regno della
fantasia, voglio immaginare Zoe che si innamora di me che anche se non sono
bravo a parlare e scrivo ancora peggio, almeno le porterei della vita dentro l’
alcova. Uh che bel finale, uh che bello!
LA
METAMORFOSI DI NIK AMEBA NEL GIORNO DEL MATRIMONIO DI GARRONE
Quella sera Nik Ameba si sentiva
un po’ depresso. Sullo schermo televisivo stavano scorrendo le immagini del
Grande Fratello (guardava quel programma, anche se lo annoiava tremendamente,
per poter partecipare alle conversazioni degli amici senza sfigurare) mentre la
sua mente vagava su ben altri canali. Volto livido, emaciato, sedeva sul divano
del salotto sorseggiando una camomilla, arresosi al fatto di dover passare una
notte in bianco a causa dei crampi allo stomaco e del mal di testa diretta
conseguenza della robusta sbronza che si era preso il pomeriggio al pranzo di
ricevimento per il matrimonio dell’amico Garrone. Ricordava vagamente di aver
importunato una ragazza e di essersi ritrovato disteso per terra . “Forse non
ho mal di testa e di stomaco solo per colpa dell’alcol” pensò per un momento.
L’ultima cosa che rammentava era lo sguardo dispiaciuto di Garrone mentre due o
tre ragazzi lo riaccompagnavano alla macchina; pure chi lo avesse riportato a
casa era un’incognita. Non ricordava nemmeno - nel climax di improvvise
reminiscenze che lo stavano assillando - da quanto tempo aveva iniziato a
ridursi sempre più frequentemente in uno stato al limite del pietoso: potevano
essere sei, sette, otto mesi, forse un anno. Il motivo lo intuiva vagamente,
anche se non aveva indagato per scoprirne le cause: si era rassegnato.
Mandò giù l’ultimo sorso di camomilla e
spense il televisore con un senso di sollievo, ormai estenuato dalla crescente,
soverchia stupidità che scaturiva da Big Brother e dintorni. Alzò gli occhi
sulla parete dietro al televisore; in concomitanza con l’inizio della sua
crisi, sei, sette, otto mesi, forse un anno fa, Nik aveva iniziato ad
appassionarsi alla fotografia, in particolare all’autoritratto: con
l’autoscatto si ritraeva ogni giorno in decine di primi piani, immortalandosi
in espressioni apparentemente sempre uguali che raramente differivano l’una
dall’altra. In quel momento la parete di fronte a lui era completamente
ricoperta di cornici contenenti la faccia smunta e quasi spettrale di Nik
Ameba. Stava pensando di non essersi mai posto neppure lontanamente il perché
di quella strana mania quando, ad interrompere il suo spleen, bussarono alla
porta.
“Oooooh!” esclamò Nik incapace di contenere
lo stupore causato da quella sublime visione. Era la donna più affascinante che
avesse mai visto in vita sua; gli si presentò.
“Ciao Nik. Sono Regina. Tu non mi conosci
ma ti seguo da tempo, mi interessi. Mi sono infatuata di te all’incirca un anno
fa; credo sia giunta l’ora di venire allo scoperto.”
Nik era scosso dall’avvenenza e
dall’esuberanza di quella meravigliosa valchiria dai lunghi capelli biondi e
dagli occhi di ghiaccio.
“Da quando mi sono accorta di te” proseguì
Regina, “ti seguo tutti i giorni; non mi crederai ma è così. Ti voglio, voglio
che tu venga via con me!”
Il ragazzo la guardava allibito senza
riuscire a pronunziar parola.
“Non c’è bisogno che parli” riprese.
“Presto tornerò. Ti lascio il tempo di deciderti e prepararti.”
“Chi sei?” riuscì a chiedere Nik. “Dove
vuoi portarmi e perché sembri così certa che io ti segua?”
“Non posso dirti nulla. Sappi però che ti
porterò in un posto tranquillo, lontano, dove potremo rimanere per sempre soli,
tu ed io. Pensaci Nik! Sai bene chi sono!”
Udendo quelle ultime parole, si sentì
mancare. Perse i sensi e cadde disteso sull’impiantito. Passò qualche istante e
si ridestò con le parole “Sai bene chi sono!” che gli riecheggiavano in testa. Dunque era stato un sogno? Ebbe appena il
tempo di prendere coscienza di ciò che era avvenuto (Nel sogno? Nella realtà?)
che la porta d’ingresso si chiuse, lasciandogli intravedere una lunga gonna
nera che, svolazzando, scompariva nell’oscurità della sera. Ripiombò nel suo
universo di elucubrazioni, un po’ frastornato ma deciso a scoprire chi fosse
Regina e cosa avesse voluto dire con quelle poche frasi che avevano portato
tanto scompiglio in quello che sarebbe dovuto essere un allegro giorno di
festeggiamenti e spensieratezza.
Nik si stava avvicinando a varcare la
soglia dei trent’anni a cavallo di un passato felice e sereno; non riusciva
quindi a capire quale ostacolo si fosse presentato a deviare la sua esistenza.
Perché non trovava spiragli nel muro (di autoritratti?) che gli si ergeva
davanti? Nelle decine di volti che lo stavano fissando non si scorgeva ombra di
espressività: “Vorrà pur dire qualcosa!?” pensò. Era convinto non gli mancasse
nulla: grazie a genitori benestanti, anzi molto ricchi, poteva permettersi
quello che voleva a livello economico; il lavoro di vicedirettore dell’agenzia
grafica del padre lo appagava non poco dal punto di vista professionale; aveva
una ragazza da sei anni e anche se negli ultimi tempi per colpa sua il rapporto
non era più rose e fiori come un tempo, stava bene con lei e la prospettiva di
un imminente matrimonio era concreta. La amava molto eppure si era trovato poco
prima a desiderare quella Regina come mai aveva desiderato nulla in cuor suo;
sentiva di conoscerla già da diversi mesi, benché non la avesse mai vista, e
già da tempo lui sapeva che un dì sarebbe apparsa a reclamarlo. Nonostante si
sforzasse non riusciva a trovare il bandolo della matassa, non individuava il
vorace verme che stava divorando i suoi giorni così velocemente.
All’improvviso, come lo scolaretto che dopo
interminabili tentativi e scervellamenti riesce a risolvere il problema di
matematica quasi per caso, Nik comprese il significato recondito negli
autoritratti. Quei volti, quelle espressioni fatue e seriali erano il compendio
di una vita di APPARENZE. Ecco la parola chiave che cercava per aprire la
cassaforte dell’inquietudine. Capiva così di aver vissuto fino a quel momento
una vita di quantità e non di sostanza, indossando maschere diverse per ogni
occasione. Dentro di lui aveva ceduto uno diga che stava annegandogli le
emozioni più profonde, sentimenti che censurava per piacere ma non per
piacersi. APPARIRE era stato il suo marchio di fabbrica per anni e anni, nel
lavoro come in società e in famiglia; persino in compagnia di se stesso, nei
momenti di solitudine. Ora provava il pressante e urgente bisogno di succhiare
purezza dal seno dell’ESSERE.
Si diresse verso il muro di fotografie.
Staccò la più datata, un autoritratto risalente a circa un anno prima. Immaginò
quel viso sulla lapide della sua tomba e subito dopo ebbe un accesso di
ribellione; il meccanismo inceppato riprendeva a funzionare grazie a quel quid
che gli avrebbe riempito il vuoto corrosivo del suo modo di vivere precedente.
Si affacciò alla finestra del salotto che dava sul panorama della città, una
tranquilla città al tramonto, e rifletté su quanto capzioso e frivolo fosse il
mondo che lo aveva da sempre attratto. Sentì un brivido violento corrergli
lungo la schiena e percepì che poteva ancora lottare contro il Nulla. Pensò:
“Sì, vale proprio la pena vivere”. Compì allora un gesto eclatante e
apparentemente insensato: staccò la spina del televisore e con una pedata ben
assestata mandò in frantumi lo schermo, poi gettò fuori dalla finestra la
cornice con l’autoritratto che teneva in mano, lontano, tra il labirinto di
vicoli della città in procinto di addormentarsi. Lui no, non voleva
addormentarsi. Quella notte sarebbe stato sveglio a crogiolarsi sugli allori
della rivincita e della rinascita. La splendida creatura che lo aveva ammaliato
poco tempo prima era tornata indossando un funereo abito nero e Nik Ameba le
aveva chiuso la porta in faccia. Aveva ancora tempo e una nuova vita da
cominciare.