sabato 28 gennaio 2012

ICIO IL POSTINO

Per questo racconto devo chiedere scusa a tutti i lavoratori e in particolare alla categoria dei portalettere, di cui ho fatto parte per poche settimane nel lontanissimo 1995. Trattasi di racconto post traumatico. Non lo rinnego solo per il furore ispiratore che mi spinse a scriverlo...


ICIO IL POSTINO

C’è stato un tempo in cui anch’io lavoravo come ogni essere umano degno di rispetto, se di rispetto si può parlare quando si tratta di acquiescente e perpetuo sgobbare. Ero completamente succubo del sistema lavoro, sodomizzato dalla prassi, crocifisso dal grigiore alienante della routine. Questo momento infausto della mia vita aveva luogo cinque anni or sono, prima che decidessi di vendere l’appartamento ereditato dal mio defunto papà, la macchina e quel po’ di terra lasciatami sempre dal babbo dopo averci lasciato le penne tra le gambe di uno dei suoi troioni altolocati; era il periodo antecedente la scelta di trasferirmi a Cuba, a gestire insieme all’amico Bubba un bar sotto le palme di una spiaggia non lontano da Varadero. Gestire per modo di dire, visto che il sottoscritto Maurizio “Icio” Morselli e socio ci limitiamo tuttora ad alzare e abbassare le serrande del locale e a infilare i nostri turgidi uccelloni nelle passerine delle nostre cinque, sei, a volte sette (dipende dalla stagione) cameriere bariste, mulatte da favola che per descrivere la loro bellezza e le loro forme non basterebbe il più grande artista – sia esso uno scultore, un pittore o un poeta – mai esistito.
    Tuttimmodi non è l’attuale capitolo della mia vita che voglio trattare, bensì, come già anticipato, quel periodo di cinque anni fa in cui lavoravo, prendendo cazzi in culo tutto il giorno. Cosa facevo? Ero postino, o portalettere, o addetto al recapito postale, o come cavolo volete chiamare un tizio che gira per vie con quintali di lettere e troiate cartacee varie da consegnare al buon cittadino contribuente.
    Svolgevo il mio diligente lavoro a Cento, mio paese natale e residenza fino ad alcuni anni fa, visto che come detto mi trovo a Cuba già da un lustro. Ho imbucato posta per dodici mesi, dai ventidue ai ventitre anni, con un contratto a tempo determinato il quale mi veniva rinnovato ogni tot settimane, fino al giorno in cui accumulato il gruzzoletto dell’eredità paterna decisi, in maniera coatta e definitiva, di farla finita con quel mondo nauseante.
    “Un essere umano non può sopportare tutto questo senza impazzire!” mi ripetevo sempre più spesso. In effetti uno che non conosce la mia avversione alla monotonia non può capire quanto sia cerebralmente devastante farsi chilometri e chilometri di campagna (eh beh, essendo un novizio mi toccava oltretutto il giro più scomodo e faticoso!!!) su un Ciao sgangherato, sei giorni su sette, con il sole o con la pioggia, la nebbia o la neve, senza voglia o senza voglia; sempre lo stesso itinerario, le stesse facce di culo che hanno sempre qualcosa per cui lamentarsi, tipo la vecchia di via Geriatria la quale senza mai sbagliare un giorno mi chiedeva che fine aveva fatto il postino che c’era prima della mia assunzione: “Perché non c’è più Carlo? Era così gentile, loquace e disponibile, mica come lei che non parla mai e neanche saluta”. Io non sapevo nulla di Carlo ma il giorno che l’esasperazione prevalse sul mio innato menefreghismo le dissi: “Signora, Carlo si è impiccato. E’ contenta adesso?”. Smise così di rompermi i coglioni con Carlo. Quello stesso giorno, rientrato in ufficio, chiesi ad un collega: “Che fine ha fatto Carlo?”. “Si è buttato sotto un treno in corsa. E’ morto… aveva un forte esaurimento” mi fu risposto. Poveraccio. Vittima dell’accumulo di lavoro. Era chiaro che sarei finito così anch’io se fossi rimasto a lavorare in Posta altri cinque, dieci, venti, trent’anni. Non sai mai quando il cervello di un lavoratore andrà in tilt, sai solo che un giorno prima o poi ci andrà, punto e basta.
    Le prime avvisaglie, i primi sintomi di forte disagio li accusai quando mi resi conto dell’odio  profondo che provavo per i cani, io che i cani li ho sempre adorati. Forse la categoria dei portalettere è destinata a odiarli dopo un po’; si è portati a sperare con tutto il cuore che mentre ti abbaiano con rabbia e ti inseguono cercando di azzannarti i polpacci lungo strade polverose, si possano impalare contro un albero per rimanerci secchi, quadrupedi bastardi. Ma i veri sintomi di una concreta instabilità mentale li accusai pressappoco dopo nove mesi di schiavitù dentro e fuori l’ufficio postale di Cento: il serial killer che c’è in ognuno di noi era in fase embrionale e di lì a tre mesi mi avrebbe fatto compiere l’Insano Gesto. Dopo mi attendeva l’evasione in paradiso, nel mio mondo ideale, interiore ed esteriore. In quel periodo infatti, iniziai a gettare nell’immondizia le lettere che reputavo importanti destinate a persone che per dirla senza perifrasi mi stavano sul cazzo, avvelenai con polpettine al cianuro due o tre cani di zotici contadini, imbucai in molte cassette della posta lettere minatorie, topi morti, rane vive, persino siringhe con bigliettini con su scritto “salve, sono mister Aids”. Stavo impazzendo completamente. Quando in un lampo di lucidità (eccezionale se penso al crescente delirio cui ero in preda) mi resi conto che non potevo farla franca ancora per molto e che presto sarei sicuramente incappato in guai seri, decisi di congedarmi, non prima però di aver “messo in scena” l’Insano Gesto.
    Mio padre era morto da circa cinque mesi e appena incassati i soldi provenienti dai beni del defunto genitore, prenotai il volo per Cuba, solo andata. Ero d’accordo con Bubba che mi avrebbe raggiunto appena possibile dopo essersi licenziato dalla fabbrica di cotton fioc dello zio.
    Il pappone di una delle zoccole che si portava in casa papà quand’era vivo, figa che anch’io ogni tanto ripassavo approfittando delle assenze del vecchio per impegni di lavoro, riuscì a procurarmi una squadra di lavavetri albanesi di otto elementi, tutti a mia completa disposizione per una cifra più che ragionevole. Si presentarono a casa di Bubba (ero suo ospite da qualche giorno visto che avevo venduto l’appartamento) con due furgoncini rubati. Salii su uno dei due automezzi di fianco a un tipo talmente losco che provai un brivido di paura e disagio quando accennai un “ciao ragazzi” e il suo sguardo rimase bieco e impassibile. Spiegai il piano e ci recammo a casa di Ugo, un contadino amico di mio padre quella settimana lontano da casa per un ricovero ospedaliero. Ci procurammo l’occorrente e ci dirigemmo all’ufficio postale; erano le quattro e trenta della mattina, quattro ore dopo avevo l’aereo per Cuba. In giro non c’era nessuno, la notte era fredda e brumosa e il lavoro che realizzammo fu impeccabile, da veri professionisti. Mi feci riaccompagnare a casa, pagai gli albanesi dopodiché Bubba mi accompagnò al Marconi di Bologna; ci salutammo con una strizzata d’occhio e prima di imbarcarmi mi raccomandai: “Non dimenticarti i giornali di questi giorni eh?!”. “Don’t worry! Ti porterò anche le cassette registrate dai telegiornali” mi assicurò il mio mentore.
    Dieci giorni dopo Bubba mi raggiunse. Io mi ero già prodigato per contattare un paio di persone che ci avrebbero aiutato ad avviare la nostra nuova attività di barman scopatori e stavo solo aspettando che il mio socio mi venisse a dare manforte. Andai a prenderlo all’aeroporto; mentre su una sgangherata Buick del ’59 ci dirigevamo nel nostro alloggio provvisorio a L’Avana, Bubba mi disse: “Sei stato un grande Icio! L’Italia intera sta ancora parlando della tua impresa”. A quel punto non stetti più nella pelle. Accostai la macchina ad un marciapiedi e mi feci passare una pila di giornali che l’amico teneva custoditi in uno zaino. Mi bastò leggere poche righe della prima pagina del primo giornale del mucchio per avere conferma di quanto detto poco prima da Bubba: sì, ero stato un grande e la società civile e moderna e produttiva e coscienziosa, da allora in avanti mi avrebbe baciato il culo… “UFFICIO POSTALE DI CENTO COMPLETAMENTE RIVERNICIATO A LETAME”; “Nella notte ignoti imbrattano l’intero edificio con quintali di sterco: goliardata di pessimo gusto o vendetta? Gli inquirenti sono al lavoro”; “Lasciato messaggio di escrementi sull’asfalto antistante l’ufficio: BUON LAVORO A TUTTI!!!”.  
                          

mercoledì 18 gennaio 2012

CATARSI

Spesso un racconto mi  viene ispirato da piccoli o grandi fatti quotidiani, a volte da una semplice frase o un gesto. Eccone un esempio in questa storiella datata 2000.

CATARSI

Un fatto accadutomi questa sera mi ha ridato ispirazione e voglia di scrivere; era da un po’ di tempo che non trovavo stimoli o spunti interessanti per la stesura di un racconto, anche se l’episodio a cui ho assistito mi ha riempito il cuore di quella tristezza che arreca notare quanta ignoranza e intolleranza regna anche nei piccoli paesi del Nordest. La tragedia che metterò ora in scena è frutto della mia fantasia… ma non più di tanto.


Marco abitava a Casadelsiore, paese in provincia di Antasede. Viveva con i genitori e lavorava come cuoco al ristorante “Le grillon muet” di Bagghettone, frazione di Casadelsiore. Tutti lo consideravano un buon cuoco anche se qualche critico un tantino esigente lo tacciava di scarso eclettismo nell’inventare nuovi piatti e ricette, osservazione peraltro giusta considerando il limitato numero di portate che non gli permettevano di essere assurto al grado di Grande Cuoco. Lui, conscio dei suoi limiti, la pensava così: “Se gli ingredienti che ho a disposizione mi ispirassero periodicamente nuove e succulenti pietanze ne sarei felicissimo. Visto che così non è, mi accontento di fare bene quel po’ che so fare, senza arrischiarmi in esperimenti presuntuosi”. Come si denota era un tipo a cui non piaceva l’azzardo, inoltre si considerava molto pragmatico e non amava assolutamente esporsi ai giudizi della gente. Aveva ovviamente le sue idee, ma cercava per quanto possibile di tenerle per sé, non per timore delle famose invettive casesi (peculiarità degli abitanti di Casadelsiore con le quali si mirava a stroncare ogni pensiero o idea non “uniforme”), bensì per una mera questione di quieto vivere. Nel tempo libero Marco prestava servizio di volontariato al C.I.I. (Centro Integrazione Immigrati) e la sera del lunedì – giorno di chiusura del “grillon” – soleva trascorrere un paio di orette in compagnia a fare quattro chiacchiere e a giocare a carte con gli amici biscazzieri. Frequentava il Bar Delcasso, nel centro di Casadelsiore. Il Bar Delcasso, di Italo Delcasso, era ed è tuttora un esercizio di terz’ordine frequentato da vecchi rimbambiti stile Alienata con monomania dell’invidia di Theodore Gericault, da gente cattolica e un po’ bigotta sulla cinquantina e dai figli di questi ultimi esemplari, sempre più numerosi, di esseri umani. Marco non aveva nulla da spartire con queste persone ma visto che Il Bar Delcasso era l’unico luogo, per così dire, di svago del paese, col tempo aveva fatto l’abitudine all’afrore che emanavano i tanti clienti farisei: aveva smesso da molto di sentirsi un pesce fuor d’acqua; gli piaceva immaginarsi, in quelle serate al bar, come un anfibio nello stagno.
    Aveva ventitre anni compiuti da una settimana quella sera di dicembre in cui varcò per l’ultima volta la soglia del Bar Delcasso. Per una beffarda coincidenza con il destino, una caustica mano anonima aveva scritto con lo spray “LASCIATE OGNI SPERANZA VOI CHE ENTRATE” sopra la porta d’ingresso quella stessa sera; Marco si trovava lì, nell’inferno dei moralisti, nel girone degli stolti. Al tavolo accanto a quello dove stava giocando a briscola con l’amico Enrico, sedevano quattro ragazzini dai sedici ai diciotto anni. Ad un certo punto entrò nel bar un tranquilla famigliola di extracomunitari di probabile etnia curda: marito, moglie ed un bambino sui quattro anni tenuto in braccio da quello che poteva essere il fratello maggiore, un robusto ragazzone di circa vent’anni.
    Senza motivo alcuno tutti e quattro i ragazzi seduti vicino a Marco, che lo stesso conosceva per essere i figli di assidui frequentatori di clericali ambienti casesi, iniziarono a ingiuriare i quattro componenti della famiglia musulmana innescando una reazione che coinvolse quattro anziani assonnati persi nella visione di una gara di scacchi alla tv e altri due ragazzi maggiorenni in una spirale di odio crescente contro i malcapitati. “Andate via pezzenti!”; “Tornate a casa vostra tunisini di merda!”; “State inquinando l’aria, fuori dai ciglioni!”. Echeggiò nell’etere anche un “la vostra terra è il Marocco, tornateci Marocchesi!” detto da un distinto signore in giacca e cravatta.
    Esposti a questa sorta di pubblico ludibrio condito da risa e scherni, i quattro si avviarono mestamente all’uscita. Marco nel frattempo aveva osservato lo svolgersi della scena in uno stato di paralisi, incredulo, annientato e pieno di vergogna per essere un uomo, un cristiano, occidentale benestante sulla barca dei presunti “paladini del rispetto e detentori della verità”.
    Quando poco prima di uscire definitivamente dalla porta principale del locale, uno dei quattro ragazzini diede un violento spintone alla donna facendola carambolare prima sul tavolo di Marco e Enrico e poi per terra, si accese una furibonda rissa tra il marito della donna, il suo probabile figlio maggiore e i quattro adolescenti. A quel punto, mentre gli attempati signori avevano lasciato perdere la partita di scacchi televisiva e ora, ridestati dalla sonnolenza si erano aggiunti agli altri frequentatori del bar nell’incitare i ragazzi indigeni, Enrico e Marco intervennero per sedare la rissa. Il primo aiutò la donna a rialzarsi e mise al riparo il bambino; Marco tentò invece di fare da paciere, ma proprio quel tentativo fece calare il sipario sulla sua esistenza. Nel parapiglia generale sbucò un coltello dalla tasca di uno dei giovani italiani e nella concitazione della lotta la lama andò a perforare involontariamente l’addome di Marco. Subito la rissa si interruppe. Il panico prese il sopravvento e in pochi secondi il bar si vuotò. Rimasero Italo il barista, che fino a quel momento si era esclusivamente preoccupato di proteggere bottiglie e suppellettili, i quattro membri della famiglia straniera, Enrico e Marco, il quale tra le braccia dell’amico sentiva la vita scivolare via, derubata dalla stupidità di un “popolo senza cultura”, inneggiante pace , amore e tolleranza solo nella speciosità delle parole.
    Morì dunque il povero Marco. La sera dell’undici dicembre dell’anno giubilare Duemila lasciò l’inferno dei dannati. Prima di spegnersi trovò la forza per dettare ad Enrico alcuni versi che avrebbe voluto sulla lapide della sua tomba; sorrise al bambino figlio degli extracomunitari poi si spense, e insieme a lui si spense la speranza, la fiducia nel futuro.
    Ebbe un epilogo assai triste anche la vicenda giudiziaria che seguì la sua morte. Siccome Enrico non era stato testimone dell’accoltellamento (in quel momento aveva accompagnato fuori dal bar il piccolo e la madre), venne incolpato il ragazzone forestiero e nessuna delle dieci e passa testimonianze dei presenti sull’accaduto ebbe l’onestà di non proferir menzogne per scagionare il vero innocente. Al processo, Enrico fece il possibile per aiutare Kalid – così si chiamava – asserendo che era stata tutta colpa dei ragazzi casesi, che erano stati loro a provocare, insultando la tranquilla famigliola islamica, ma né Dio né Allah evitarono trent’anni di galera a Kalid.
    Nel vortice di menzogne che seguirono l’evento, solo poche parole assunsero un significato di verità assoluta: le parole dell’epitaffio voluto da Marco sulla propria tomba, le parole di un ragazzo geloso della tranquillità del suo quieto vivere che aveva sempre cercato di tenere per sé le sue idee per non ferire le persone che la pensavano diversamente. Quelle parole esplosero, rimbombando nell’immobilità perbenista e nell’atavica sonnolenza della ragione di Casadelsiore per lasciare il segno:

Siano maledetti gli Dei, tutti, e i loro simboli in terra

Cagione principe delle umane disuguaglianze

Siano maledetti gli uomini, sfruttatori degli Dei

Inventori di razze e confini, artefici di intolleranza

Assassini di intelligenza

Uomo, lascia ogni speranza tu che nasci nel mondo dell’odio.


mercoledì 11 gennaio 2012

Periodo Maledetto

I tre racconti preistorici che posto oggi fanno parte di quello che definisco il Periodo Maledetto, dove inquietudine, debolezza e un temperamento autodistruttivo trasudavano da ogni frase. Ma rileggendoli a distanza di tempo vi trovo anche una gran voglia di ribellione contro un mondo mediocre: queste parole erano un grido che giungeva dagli anfratti più reconditi dell'anima e che diceva: NON SARO' ANCH'IO UNA MARIONETTA COME TUTTI GLI ALTRI... SE SOPRAVVIVERO' A QUESTA TEMPESTA VEDRETE...


RIFLESSIONI


Sai una cosa Sal?! Questa sera sono uscito di casa lucido e sobrio per la prima volta dopo mesi, e sai cosa ho scoperto? Le persone sono tutte insopportabilmente noiose. Temo che la mia strada non avrà alternative: mi autodistruggerò! Certo, lo so che è la via dei perdenti, ma non me la sento di affrontare una realtà così squallida. Almeno quando sono “fuori” posso fronteggiare a spada tratta tutte le scempiaggini e quella sensazione indefinibile di vuoto e devastante monotonia che esce dalle bocche della gente che mi circonda.
    Come dici? No amico, non sono un megalomane spocchioso. Sono solo un illuso forse, uno che aspira ad una vita più completa, certamente non in senso materiale. Cosa? La società è il mio nemico? Può darsi, però ti prego, lasciamo stare la società: ormai so com’è strutturata e l’ho sentita nominare talmente tante volte che adesso mi viene la nausea se ritiri fuori questa solfa . Penso tutt’al più che il mio vero nemico ce l’abbia dentro, nascosto da qualche parte, un verme subdolo da estirpare se non voglio morire davvero presto.
    Forse dovrei smetterla di farmi delle domande e anche di cercare per forza delle risposte, ma guarda caso, oggi che non sono fatto di qualcosa non riesco a non perdermi nelle riflessioni. Lo so Sal che tu mi capisci; e chi altri potrebbe!? Guardati, sembriamo uno la fotocopia dell’altro: stessi occhi vacui, stessi capelli scompigliati, stessa faccia pallida e provata. Beviamo e ci facciamo per riuscire a sopportare il peso del mondo, ebbene?, ti consideri un perdente? Non rispondi eh!   Scusami vecchio mio, ma almeno da te mi aspetterei una qualche risposta, dopo tutto viviamo la stessa vita, facciamo le stesse cose, leggiamo gli stessi libri. Vedo qui in camera i vari Pirandello, Sciascia, Calvino, Hemingway, Hesse, Kafka, Golding, Wilde; i figli di puttana (come ci piace definirli): Henry Miller, Leary, Bukowski, Carroll, Kerouac, Welsh, Burroughs. Stessi gusti e stessa personalità squarciata. Ricordi quando ti confidai che scrivo sempre sull’orlo di un burrone? E meno scrivo, più rischio di caderci dentro? Paura dell’oblio, dell’insulsaggine, del non riuscire a “dare prima di andare”. Gara contro il tempo (il treno della morte), per lasciare un’impronta, sia pure minima e quasi intangibile, su questo mondo.
    Forse un giorno sarò io a voler giungere al capolinea prima del tempo, proprio per non aver più nulla da dire o da dare… mmm… no, no non è possibile, sul treno della morte si incontrano situazioni e a volte pure persone troppo curiose per sfracellarsi al suolo prima della stazione: la vita è sempre e comunque evoluzione.
    Merda! Sto iniziando a mal sopportare persino te Sal, quindi se mi concedi un momento, vado a fumarmi uno spino e a farmi una birretta giù in cucina. Torno presto, non ti preoccupare. Dobbiamo ancora finire di parlare.

Rieccomi qui vecchio amico. Credevi non tornassi più? E come potrei vivere senza te, senza i tuoi consigli?! Certo che siamo strani noi due. Anarchici fuori e assetati di serenità dentro, lacerati e laceranti, santi e blasfemi, pazzi e razionali. Chi sei tu in realtà? Se ti perdessi chi o cosa diverrei? Sono forse un Dorian Gray e tu il mio ritratto? Domande, domande, domande, sempre domande. Ora me le pongo anche se sto cercando di cuocermi il cervello. Sal, Sal, mio caro Sal, se mi lasciassi solo per lo meno non sarei così straziato dalle domande; forse sarei uno dei tanti, un burattino, ma al giorno d’oggi si sa, meno si ragiona meglio si sta. Invece non mi lascerai mai e vivremo perennemente dall’altra parte della barricata, là dove non batte il sole, nella minoranza, perché noi stiamo bene solo con i Pochi, non con i Tanti.
    La canna e la birra che mi sono sparato mi hanno reso più introspettivo del solito: male! Devo aumentare le dosi. Voglio che tu sappia che se speri di tornare a parlare faccia a faccia, ne aspetterai di tempo!, ché riflettere con te mi fa troppo male. E poi mi dai l’impressione che guardandoti così da vicino, attraverso questo specchio sudicio, tu ti stia rovinando. Sei molto meglio quando sei fuori, fuori dalla realtà, l’unico territorio entro cui possiamo vivere a nostro agio.


CINEFESTIVAL CHATTANOOGA


Per gli amici sono semplicemente Emme, in realtà mi chiamo Esse e sono originario di Q, anche se da anni vivo a Erre. Magari vi starete chiedendo cos’avrà mai da raccontare un personaggio tanto anonimo quale io sono, ma capirete ora che per quanto frivolo, ho avuto il privilegio e la fortuna di assistere al videoclip più geniale, spontaneo ed emotivamente coinvolgente mai visto. Purtroppo questo capolavoro di arte visionaria e viscerale è andato perduto per sempre e dubito di poterlo apprezzare nuovamente nella sua intensità, dato che era soltanto una proiezione virtuale del mio cervello innescata da una serata di eccessi tossici di vario tipo che hanno alterato il proiettore della mente, distorcendo immagini e simboli nel cortometraggio più pregnante della storia del cinema mondiale indipendente, o se vogliamo individuo-dipendente. Non essendo un regista non posso neppure tentare di trasferire il Sogno su pellicola, ma anche se avessi i mezzi, se fossi in pratica una sorta di artista, non riuscirei mai a rendere universali e tangibili un profluvio di emozioni come erano a livello onirico. Proverò però, anche se in maniera elementare (dopo tutto sono pur sempre Esse, Emme per gli amici) di illustrarvi ciò che vidi.
    Ero al Chattanooga  con John Holmes e Vasco. Il Chattanooga è un locale, un disco pub, dove per ogni drink ordinato te ne vengono offerti due gratuitamente; inoltre circola al suo interno ogni tipo di droga e vi giuro su A e B che ho visto più sbirri farsi delle canne là dentro che hippies a Woodstock , eppure il Chatta tira avanti che è un piacere, facendo soldi a palate e senza mai incappare in fastidiose noie legali.
    Che vi spieghi chi sono John Holmes e Vasco non ha molta importanza: sono due comparse come potrebbero essere Elle e Effe. Vi basti sapere, a titolo informativo, che John Holmes è il soprannome di T, così detto per le dimensioni del suo pene, pene la cui leggenda vuole rasenti i trenta centimetri (come quello del famoso pornodivo defunto, come si narra); mentre Vasco è proprio lui, Vasco Rossi da Zocca, cantante e poeta, almeno così crede U da quando ha preso la scossa lavorando su un palo della luce dell’Enel.
    Tornando a me, sono dunque al Chattanooga. Ho già bevuto quattro cocktails tutti d’un fiato, tra i quali il meno alcolico avrà avuto quaranta gradi e mi sto fumando uno spino quando… dallo stereo tenuto a tutto volume parte una martellante canzone dei Chemical Brothers: “Hey boy hey girl”. Contemporaneamente il film ha inizio:
    Emme, il protagonista, si trova in un ambiente cupo, ammantato dall’oscurità delle tenebre; solo il suo volto e parte del busto sono distinguibili. Si accende una sigaretta e la luce della fiamma dell’accendino illumina più intensamente uno sguardo tenebroso che rimanda a quello del mitico Humprey Bogart. Dopo un paio di tiri, la telecamera immaginaria inquadra i suoi occhi in primissimo piano. A questo punto partono vari flashback: 1) Vestito da ballerina sto esultando in un’esplosione di rabbia e felicità per aver segnato un gol ad un sottosegretario di un qualche ministero in tenuta da caccia; 2) Nudo, sorvolo con un deltaplano un’ipotetica città medievale mentre masturbandomi faccio piovere una tempesta di sperma sugli abitanti sottostanti; 3) Sono in compagnia di John Steinbeck e Francis Scott Fitzgerald e stiamo brindando alla faccia di William Faulkner; 4) Sniffo cocaina con una banconota da dieci milioni di dollari e intanto un ippocampo gigante vagamente rassomigliante a Nelson Mandela mi offre un bicchiere di tequila; 5) Ho l’uccello infilato in una presa di corrente ed eseguendo ritmici movimenti pelvici seguo alla tv una puntata del “Maurizio Costanzo Show” condotto da Groucho Marx; 6) Mi trovo in discoteca e ballando emetto scoregge che nel giro di pochi istanti svuotano l’intera sala da ballo; 7) Partecipo in lacrime al funerale di mia madre, capeggiando un corteo funebre composto esclusivamente da donne obese che sghignazzano; 8) Impreco e bestemmio mentre accatasto scatoloni contenenti capezzoli femminili in una fabbrica sotterranea; 9) Sto galoppando a gran velocità tra le dune di un deserto mentre arabi travestiti da suore mi inseguono su lenti cammelli a sei gobbe. Qui finiscono i flashback e con ancora la colonna sonora dei Fratelli Chimici in sottofondo ritorna l’immagine iniziale. La sigaretta che stava fumando Emme è quasi finita; dà l’ultimo tiro e viene abbagliato da una luce verdognola potentissima che sfuma la scena conducendo direttamente all’epilogo: sul selciato di un plumbeo parcheggio antistante un ipermercato, la telecamera mentale zooma velocemente su un foglio stracciato trasportato dal vento; si riescono a leggere due lettere su quel foglio: Esse e Emme.
    La canzone è finita. Il film è finito. Sapete cosa ho fatto subito dopo? Ho salutato John Holmes e Vasco e barcollando sono corso (per quanto potessi correre ebbro com’ero) a casa. Non potevo permettermi di lasciar fuggire quell’ allucinazione dalla mia mente. Come per catturare un sogno, che man mano che il tempo passa sfuma nell’oblio quasi totale dei particolari, avevo la necessità di sviluppare subito la pellicola cerebrale. Come? Mettendo per iscritto quanti più dettagli potevo. Ma, come non potrei mai immortalare quei fotogrammi con una telecamera, non posso neppure pretendere di farlo con un foglio e una penna. Comunque sia ho visto, tra virgolette, un’opera d’arte che nessun altro al mondo vedrà mai. Pure, penso che sarei capace di interpretare il significato ancestrale di ogni simbolo che appare in essa se ci riflettessi sopra approfonditamente. L’unico grosso enigma da decifrare è questo: quando sono partiti i titoli di coda, il regista del mio delirio veniva indicato con il nome di Simone Manservisi. Chi è?


TESTAMENTO DI UN CATTIVO MAESTRO


Eccomi qua, disteso su questo tetro giaciglio di morte, immerso nel buio astratto di una stanza un tempo cara; i parenti intorno anziché sostenermi l’animo, non fanno altro che accelerare – con il loro malcelato dolore – il processo del mio lento e inesorabile spegnimento. Sembra quasi di assistere a un filmucolo strappalacrime.
    Sì, sono stato un personaggio scomodo durante la breve esistenza che mi ha visto protagonista e sono sicuro che nonostante tutto, la mia scomparsa lascerà costernate moltissime persone, però, immaginando il mio funerale, credo che saranno pochi coloro i quali verranno colti da un maggiore senso di affannosa perdita: quei pochi che avevano capito l’immensa positività del mio essere. La positività di un pensiero che ha sempre divulgato spiritualità e amore per la vita , a contrario di quanto hanno sempre pensato – e sempre penseranno – i Viswows, alieni terrificanti che continueranno a dipingermi solo come un disadattato, drogato, blasfemo, materialista…
    Si conteranno sulle dita di una mano gli amici che parteciperanno, INSIEME A ME, al mio corteo funebre, mentre i Viswows sotto le loro belle maschere modello lutto tratterranno a stento esplosioni di giubilo. Sputeranno forse sulla mia tomba quando sapranno di non essere visti da nessuno, ma io voglio dirvi questo cari Viswows: le vostre microscopiche menti non coglieranno mai gli aspetti più importanti e significativi della vita come invece ho fatto io, che ho VISSUTO, imparando ad amare al di là di ogni immaginazione, soffrendo, morendo più volte (concetto a voi sconosciuto – la morte – in quanto nascete già morti), crescendo, emozionando, carpendo giorno dopo giorno il SENSO; mentre voi rimarrete per sempre avvolti nel vostro guscio, coccolati dal tepore di un’incommensurabile insipienza, tipica dei Viswows.
    Certo però che mi dispiace! A trent’anni non avrei mai pensato di morire. Con lo stile di vita sregolato che conducevo non avrei sicuramente mai scommesso di superare i cinquanta, ma trenta!, vabbè in fin dei conti sono riuscito ad essere e a fare sempre quello che volevo. Provo grande dispiacere solo per mia madre, mio padre e i miei fratelli; loro che in questo momento non possono nemmeno immaginare il male che mi fanno con i loro sguardi afflitti, proprio loro, i miei cari, che anche se spesso si indignavano per i miei atteggiamenti provocatori, sapevano e sapranno che c’è una luce nel cuore degli uomini (non dei Viswows!), una luce che resta accesa anche nelle notti più lunghe. E’ proprio quella la luce che intendo lasciar loro in eredità, insieme ai miei pochi soldi, i quali spero basteranno per pubblicare il mio ultimo e “definitivo” libro e per indire il premio letterario “Fuck the world”, dedicato alla mia memoria, alla vita di Jack Infradito, inventore del New Beat, e aperto a tutti coloro che amano e sanno cos’è l’amore, a tutti quelli che danno gran valore alla propria crescita spirituale, che sono sinceri e veri, che rispettano gli uomini e combattono i Viswows. La mia esperienza qui con voi è stata breve ma proficua. Ho provato l’amore e esaltato il sesso; ho amato uomini e donne; ho usato droghe e combattuto l’establishment; ho avuto l’onore di sentirmi unico in un mondo che annulla l’individuo per darlo in pasto ai Viswows. Chiudo gli occhi, sono troppo stanco. Domani il sole spunterà di nuovo, ma nessuno se ne accorgerà. 



giovedì 5 gennaio 2012

Tre storie d'amor perduto

I tre scritti che seguono sono uniti dal filo conduttore dell'amore, in particolare il tema trattato è la FINE di un amore. Roba vecchia che marca con ancor maggiore evidenza la distanza che intercorre oggi tra questi racconti e il loro autore...




CARA TOPINA

 Oggi pomeriggio, assalito d’improvviso da una folata di ciclica nostalgia, ho voluto riaprire la “scatola dei sogni”, lo scatolone dove ho riposto tutti i nostri ricordi. Sai, io ho tenuto tutto, senza buttare via niente; mica come te che dopo pochi giorni già ti eri disfatta di ogni cosa che rievocasse la mia esistenza. Me lo ha detto la Manu. Mi ha detto che hai gettato via ogni cosa, con rabbia, nel cassonetto dell’immondizia: è stata una mazzata, puoi immaginartelo. Comunque non potevo certo aspettarmi che custodissi tutte quelle cianfrusaglie da giovani innamorati, dopo tutto ti sei sposata e hai avuto una splendida bimba; per te il passato è sepolto sotto due metri di terra, mentre per me, che da allora non ho più amato una donna come ho amato te, è ancora uno sgradito compagno di viaggio. Ciò non vuol dire che ti amo ancora, anzi, ti odio e se rifletti è la stessa cosa.
    Ti invidio anche. Vorrei essere un artista come lo sei stata tu, capace di creare il più alto esempio di opera d’arte: un figlio. Invidio da morire pure la tua normalità piccolo borghese: la famiglia, il lavoro, gli orari da rispettare, la sicurezza economica, gli status symbol; mentre io sono destinato a vivere su un’isola… l’uomo isola… bel titolo per un romanzo, che ne dici?
    Ti dicevo dello scatolone. Mentre toglievo accuratamente il nastro adesivo che lo sigillava, il mio cuore ha preso ad andare all’impazzata. Non appena ho scorto le foto, le lettere che mi scrivesti (così ricche di candore e ingenuità), i pupazzetti, la catenina d’oro che mi regalasti a Natale, la fedina dell’“amore eterno”, non ce l’ho fatta e ho pianto, con quel senso di angoscia che prova un bambino che non trova più la sua mamma in mezzo a una gran folla. Dopo aver guardato tutte le foto e ripercorso le tappe della nostra storia insieme – il mare, la montagna, i compleanni, gli anniversari, ecc. – ho avuto un black out. Mi sono sdraiato per terra con il volto rivolto verso l’alto (ero in granaio, il nascondiglio segreto della “scatola dei sogni”), ho lasciato che le lacrime mi si asciugassero da sole e mi sono acceso una sigaretta. Sono stato in trance per dieci minuti, poi ho voluto rileggere le tue lettere d’amore e le brutte copie delle mie (mamma mia quante ne ho scritte!). Eravamo due ragazzini, è evidente, e io molto più di te ma la purezza e l’innocenza e la gioia e la tenerezza e la solennità e la forza dei sentimenti che trasparivano, oggi come allora, da quelle parole, non può essere rappresentato in  nessun capolavoro della letteratura mondiale, né ora né mai. Credimi. Di errori ne ho fatti per meritarmi il castigo di perderti, però sappi che insieme, tu ed io, abbiamo realizzato l’Idea Definitiva: l’Amore. Ma nessuno potrà mai apprezzarla o copiarla perché essa si è dissolta, è svanita con l’avvento della disillusione. Ed ora che tu, avvolta nella confortevole bambagia di “donna riuscita”, continui a fungermi da musa ispiratrice senza nemmeno sospettare che un uomo è morto per la pena che gli hai inflitto; ora che nonostante costui sia risorto dalle sue stesse ceneri per diventare un traduttore di sogni e speranze abbacinanti; ora che le parole, i pensieri e i fatti valgono meno di niente; ora che il mondo inizia la sua parabola discendente; ora che “se io” e ora che “se tu”, ora e per sempre, io dico: Vaffanculo! Richiudo la scatola. E questa volta dentro ci metto anche te.



UNA DOLCE STORIA D’AMORE

 “Ciao Ma!” dico sbattendomi la porta alle spalle.
    Mia madre mi saluta distrattamente: è al telefono con la sua cara amica Adele. Salendo le scale per andare nella mia camera da letto, la sento dire: “Hai sentito di Michele Pozzi? Lo hanno portato a San Patrignano. Quella povera donna di sua madre non meritava una simile disgrazia; per fortuna i miei figli hanno già passato l’età critica per cadere nel tunnel della droga. Sai Ade, non per modestia ma credo di averli cresciuti proprio bene i miei Stefano e Lucrezia…”
    Sdraiato sul letto penso che non è possibile avere una limitatezza di vedute come ha mamma: ho ventotto anni e lei pensa che sono al sicuro. Come ragiona? Cosa ne sa?
    Un riflesso condizionato – provocato dall’ignoranza pedagogica di mia madre – mi induce ad aprire un cassetto del comodino; un righino di cocaina è proprio quello che ci vuole. Telefono a Simona, la mia ragazza.
    “Ciao Simo, ti va di farti un giro in centro? Sì? Ocappa, tra mezz’ora passo a prenderti… sì… ciao.”
    Quando sto per uscire di casa, le due comari sono ancora al telefono. La mia vecchia si sta infervorando: “Hai visto il tiggì? Finalmente hanno arrestato quel pedofilo di Milano, quello che faceva quelle brutte cose con la nipotina e la figlia. Maledetti pervertiti, io li impiccherei tutti…”
    Non sono certo in disaccordo con le sue parole, ma se sapesse che ho sverginato io mia cugina Vittoria (di soli tredici anni) e mi sono fatto fare un pompino da zia Carmela mentre il suo amante (Rocco, un mio caro amico) le faceva il culo, chissà come ci rimarrebbe male ‘sta povera cristiana!?
    Salendo sullo scooter scuoto la testa con un sorriso a metà tra il beffardo e il perplesso. Quando arrivo a casa di Simona, lei mi sta aspettando giù in strada. La carico didietro.
    “Come sono contenta per tua sorella! Non vedo l’ora che si sposi e nasca il bambino. Beata lei! Quand’è che nascerà?” mi fa prima di partire.
    “Dovrebbe nascere i primi di dicembre” le rispondo, poi, sbalordito esclamo: “Beata lei!?”
    “Come dici Ste?”
    “No niente, niente.”
    Ci avviamo e mentre mi dirigo verso il centro città realizzo quanto insolite siano state quelle due parole pronunciate da Simo: beata lei. Cioè, voglio dire… beata lei ‘sto par di coglioni! Impregnata da quel buzzurro del suo maschio, terrone megalomane, e a un passo dalla sepoltura matrimoniale… beata lei? Non scherziamo. Per di più verranno a vivere qui in casa con me ed i miei, con quel segaiolo scassacazzo di mio padre tutto il giorno ubriaco e mia madre sempre dietro a brontolare; ci vedo proprio un bel quadretto familiare. Forse è meglio che mi trovi un lavoro fisso e me ne vada di casa. Oggigiorno lo spaccio di stupefacenti non garantisce più, qui a Bologna, l’agiatezza di un tempo; tutti ‘sti merdosi magrebini hanno monopolizzato il mercato e per i pesci piccoli come me non c’è più spazio.
    L’unica sicurezza che ho, per fortuna, è Simo, una persona adorabile: se non ci fosse lei sarebbero sicuramente cazzi acidi. L’ho conosciuta cinque anni fa, amica di un’amica di Rocco, ci siamo subito piaciuti. A quel tempo frequentavo ancora l’università, ma già stavo meditando di abbandonarla, dato che mi sembrava solo di perdere del tempo prezioso per il mio futuro; subito dopo averla lasciata infatti mi sono dato allo spaccio, un lavoro onesto, fonte di guadagno per chi non vede differenza tra un imprenditore e un operaio di infimo livello: trattasi pur sempre di dare e prendere, di calpestare ed essere calpestati, di vivere e morire. Ricordo ancora come se fosse ieri la prima uscita che facemmo insieme. Passammo un’intera notte a chiacchierare seduti sulla scalinata della chiesa di San Petronio. Rimasi folgorato dalla sensibilità, dall’arguzia e dalla sottile ironia che traspariva dalla sua solida personalità.
    “La spiritualità non è altro che atmosfera. Senza atmosfera non può esserci spiritualità; ma senza spiritualità può comunque esserci atmosfera. Lo spirito è un ologramma proiettato dall’atmosfera, ovvero dall’ambiente, il più delle volte positivo, che ci circonda” mi spiegò.
    Io non ci capivo un granché ma ero affascinato. Diceva: “Colei che sa, non ha bisogno di parlare”; oppure: “ Chi ha dato del tu alla morte non darà mai del lei alla vita”, e così via. Aveva ed ha tuttora un repertorio di massime vasto e interessante. Tante volte non capisco quello che dice, però rimango incantato ad ascoltarla lo stesso. Siamo molto diversi ma anche molto simili nel concepire la vita. “Carpe diem” è il motto che ci unisce. Lei è sicuramente più matura di me (anche se più giovane) e pure più acculturata; quella prima serata trascorsa insieme mi fece un sunto delle caratteristiche e differenze che distinguevano beatniks, dadaisti e lost generation. Mi raccontò dei suoi trascorsi di militante radicale e poi di anarchica; mi disse quanto amava leggere il suo conterraneo Sciascia e John Fante. Più parlava, più non capivo nulla, più mi innamoravo.
    Sono passati tanti mesi da allora e mi rendo conto di aver intrecciato un legame inscindibile con Simo. Non sa che spaccio droga; non sa nemmeno – ci mancherebbe! – che non appena mi capita di fare qualche scopata extra con altre ragazze non mi tiro indietro, anzi, lo considero un trascurabile vizietto che ha lo scopo terapeutico di rafforzare sempre di più una relazione a prova di bomba.
    Ma eccoci qui adesso, in giro per Bologna; prendiamo un paio di birre in bottiglia e ci sediamo, oggi come allora, sui gradini di San Petronio. Mi sento particolarmente romantico. Sarà forse l’atmosfera, come diceva lei, a mettermi in questa predisposizione d’animo? Non lo so, fatto sta che la abbraccio dolcemente.
    “Ti amo Simo!” dico.
    Lei non risponde. Forse si sta facendo cullare dal momento così tenero. Ripenso al “beata lei” esclamato poco prima sullo scooter e realizzo che non era un’ “uscita” da Simona: non si era mai mostrata incline al matrimonio, proprio come me. Quelle parole suggerivano un cambiamento di rotta nei programmi e negli ideali della mia ragazza. La stringo più forte. Lei mi guarda, mi sorride, poi mi bacia ma freddamente, le si inumidiscono gli occhi.
    “Ste, ti devo confessare una cosa.”
    Siamo così innamorati, penso, se mi dirà che mi vuole sposare le dirò di sì, dopo tutto è anche ora che mi sistemi, che metta la testa apposto.
    “Non so come dirtelo” prosegue un po’ imbarazzata.
    Le sorrido. La incoraggio con il pensiero: su, non è difficile. In fondo siamo giunti alla logica conclusione, al traguardo che in questi cinque anni ci ha resi una persona unica.
    “Sono stata con un altro!”
    What?
    “Con diverse persone!”
    Sbianco. Comincio a tremare. Dopo un interminabile minuto di silenzio riesco un po’ a riprendermi, ma le parole mi escono come filtrate, depurate da qualsiasi tono o volume.
    “E con chi saresti stata?”
    “Con Rocco, più di una volta. Altre volte sono stata con lui e Marco insieme. Una sera con Rocco e Eric. Ho passato anche una notte con Veronica, mentre Rocco ci riprendeva con la telecamera. Non ero mai stata con una donna: è stato bello.”
    Ammutolisco letteralmente, pur sentendo i polmoni stracarichi di parole che non vogliono saperne di uscire e mi gonfiano il torace; respiro a fatica. Svengo. In uno stato subcosciente immagino me stesso in procinto di sodomizzare Simo, mentre Rocco ci guarda divertito; lei è a pecora e mi sta supplicando di sfondarle lo sfintere. La accontento, ma quando ad un tratto gira il volto verso di me… sono io! Mi sto inculando mentre Rocco e Simona se la ridono spassosamente.
    Mi sveglio su un lettino in un pronto soccorso. Simona è lì davanti a me. Sono inebetito ma ricordo tutto; cerco di mettere a fuoco il viso di Simo, piano piano: sta sorridendo compassionevole e mi carezza la fronte. Vorrei dire qualcosa, vorrei piangere, vorrei correre via, ma compare mia madre e con le sue parole conclude questa storia, la mia storia, una storia d’amore. Fa’: “Sembrate proprio fatti l’uno per l’altra.”



OMICIDIO SULLA SPIAGGIA

Non potevo aspettare oltre. Erano circa due anni che vagavo tra gli spessi muri del mio dedalo mentale per trovare una soluzione, o meglio, una conclusione alla storia che mi legava a  Katia da oltre sei anni. Ultimamente lei era sempre cupa ed io, nonostante la amassi ancora e ne fossi sostanzialmente geloso, mi ero stancato del nostro rapporto. L’incantesimo dei primi tempi insieme si era spezzato ed ora qualcosa di contorto e spaventoso mi martellava continuamente in testa; udivo una voce lontana ma chiara ripetermi: “devi eliminarla, devi eliminarla, devi eliminarla… dalla tua vita!”.
    Una notte, sulla spiaggia di Rimini, misi in pratica i consigli della mia coscienza ormai turbata la quale mi consigliava tramite quella voce spettrale. Eravamo solo io e Katia, nessun testimone in giro; una coppietta aveva da poco finito di fare l’amore su una sdraio ad una cinquantina di metri da noi e tra baci e coccole se ne stavano ora andando. Seduti sulla sabbia in riva al mare li avevamo osservati in silenzio ed entrambi avevamo provato, ne sono sicuro, una certa nostalgia per quei tempi vitali e romantici in cui ci bastava un bacio o una carezza per riempirci di gioia e mandarci il cuore in fibrillazione. Poi, sempre senza fiatare, ci eravamo messi a guardare i flutti infrangersi sull’arenile. Tremavo ma ormai la decisione era presa, l’insano gesto, da me tanto paventato nella sua esecuzione, stava per essere compiuto. Mi voltai di scatto, all’unisono con Katia; lei notò il mio turbamento e con un’inquietudine  dipinta sul volto non inferiore alla mia mi chiese cosa stavo nascondendo sotto la giacca di jeans, quella vecchia giacca di jeans ormai slavata come il sentimento che in quel momento ci univa. Ero lì lì per farlo quando… lei mi anticipò:
    “Micio, non ti amo più. Lasciamoci!” mi disse con voce stentorea.
    “Sì, cre… credo che che sia giusto co… così” riuscii a balbettare.
    Cosa avevo sotto la giacca? Un cuore spezzato. Volevo uccidere un amore già morto e ci avevo impiegato mesi, forse, riflettendo, persino anni per scoprirlo su una fottuta spiaggia romagnola. Il coltello di parole che mi trapassò il cuore mi uccise, metaforicamente parlando, per molto tempo e penso proprio che la sua cicatrice mi accompagnerà fino alla fine dei miei giorni benché abbia faticato tanto nel tentativo di risorgere e vi sia infine riuscito. Katia mi aveva assassinato solo per non aver agito qualche secondo prima di lei… o forse per non aver mai capito che da tempo il meccanismo del nostro rapporto si era inceppato.
    Dopo aver tanto rimuginato scoprivo di colpo che NO, NON VOLEVO PERDERLA, ma ormai era troppo tardi, ero stato eliminato… dalla sua vita… E dalla mia! 

lunedì 2 gennaio 2012

INCIPIT

Il brano che segue doveva essere l'incipit di un racconto-romanzo su un cuoco assassino, almeno così mi sembra di ricordare. L'ispirazione, già non ai massimi, mi ha accompagnato giusto il tempo di scrivere queste righe. Però, rileggendole, posso ora dire che sono state i prodromi della nascita di Mondemer, l'opera che ho scritto subito dopo e che vedrà la luce con la pubblicazione tra qualche mese. Inizio dunque il 2012 postando questo breve inedito che vi introdurrà, molto indirettamente, nel fantastico mondo di Mondemer.

MONGO (capitolo primo) 

A trentatrè anni ho sempre pensato che sarei morto. Probabilmente l’idea aveva iniziato ad assumere una forma larvale durante le ore trascorse al catechismo da bambino e nel tempo si era via via consolidata nel mio inconscio sino a divenire certezza. La storia del figlio di Dio sceso tra gli uomini per salvare l’umanità mi affascinava, anche se nemmeno allora ci credevo troppo; c’era qualcosa che puzzava nell’abusata parola “fede” che i catechisti adoperavano per spiegare, o evitare di spiegare, perché la nostra religione era quella originale mentre le altre erano patacche. Bisogna avere fede, dicevano, ma io di un qualcosa che non è dimostrabile o non viene dal cuore non me ne sono mai fatto niente. E quel Gesù non mi convinceva proprio, però pensare che un dio, quale che fosse, avesse mandato sulla terra un suo rappresentante per salvarci mi faceva viaggiare con la mente. E se fossi io il figlio di Dio?, mi dicevo. Dopotutto ci insegnano che siamo tutti figli di Dio! Beh, se fossi un Gesù moderno non credo proprio, pensavo allora come oggi, che salverei gli esseri umani. Quei pochi meritevoli sì, ma tutto il resto… Vabbè, forse sto divagando: quali che fossero le mille elucubrazioni che nascevano dietro al banco di catechismo, mi ero autoconvinto che a trentatrè anni sarei morto, come Jesus. Perché come chiunque, anch’io potevo essere Jesus.
   Invece a trentatrè anni ho cominciato a vivere. Buffa la vita, soprattutto per chi sa coglierne gli aspetti beffardi e non si lascia travolgere dalla sua spietatezza. A trentatrè anni, ho capito che era ora di far fruttare la ricchezza interiore che avevo accumulato fino a quel momento. A trentatrè anni, ho capito di avere due talenti che stavo facendo evaporare senza coglierne i frutti: scrivere e cucinare. Nel primo caso, lo avevo fatto saltuariamente fino a quel momento, scrivendo racconti e testi teatrali per un amico regista. Inoltre avevo pubblicato quattro libri, ma di questi e della loro particolarità vi parlerò più avanti.  Nel secondo caso, posso parlare di vera e propria passione e perfino di genio anche se rischio di apparire presuntuoso: mia mamma e mio padre erano cuoca e sommelier in un noto ristorante di Bologna di loro proprietà e da buon figlio d’arte avevo appreso i segreti culinari sin da piccolo. Passavo interi pomeriggi a osservare la maestria di mia mamma nella cucina del “Tutrlèn”; quante ore passate a giocare con pezzetti di sfoglia e rimanenze di sughi con i quali mi sbizzarrivo a inventare nuovi piatti! Da grande avevo poi fatto una scuola alberghiera a Rimini e una volta diplomato ero tornato a casa a lavorare al “Turtlèn”. 
   Nel 1999 nel giro di due mesi un incendio aveva distrutto il ristorante e mamma si era ammalata di cancro ai polmoni. Papà non aveva retto lo shock e non era riuscito a rimboccarsi le maniche per far ripartire il “suo” ristorante. Era andato in pensione e aveva accudito mamma sino alla morte, avvenuta il giorno di Santo Stefano del 2000. Io ero un cuoco molto richiesto e trovai presto lavoro in un altro noto ristorante di Bologna, il “Regina Elena”, ma non lavoravo più con l’entusiasmo che mi portava a creare piatti e ricette deliziosi, gli stessi che avevano reso unico il “Turtlèn”. Qualcosa si era addormentato dentro me, ma mantenevo sempre vivo il sogno di riaprire un ristorante tutto mio, magari al Paesello. Avevo anche un altro sogno: realizzare l’ingrediente perfetto, quello che avrebbe reso ogni mio piatto un’opera d’arte. Era quasi un proposito da scienziato pazzo o da alchimista, ma un giorno ebbi l’illuminazione che cercavo e da quel momento la mia vita ebbe un nuovo obiettivo, che si concretizzò appunto nel 2008, nel corso del mio trentatreesimo anno di vita, con l’apertura del mio ristorante…
   Scrivere, cucinare e, aggiungo, amare sono i tre ingredienti che amalgamati nel modo giusto, sono risultati il segreto del successo di Mongo Monesi, lo chef che vincerebbe il Premio Nobel per la Cucina, se solo esistesse…