lunedì 20 febbraio 2012

La Solitudine

In questi racconti del Pleistocene il tema principale è la Solitudine, ma non quella positiva che ispira e produce rumore, o meglio, musica; qui si tratta di una solitudine negativa, quasi straziante, una solitudine che, per fortuna, non mi appartiene più, sconfitta dalla voglia di vivere e dalla "luce". 

VIALE SOLITUDINE
  
Sabato sera di fine gennaio. Dopo aver trascorso un venerdì notte a bere porcherie in vari localetti della provincia, mi sentivo veramente giù. Tra l’altro il sabato sera dalle mie parti è il giorno consacrato all’uscita con la morosa, per cui quella sera sapevo già che uscendo e recandomi al punto d’incontro della mia compagnia, il BarBaro, avrei trovato solo Fetuso e Smoke, gli unici due sfigati insieme a me che nessuna donna avrebbe mai filato, nemmeno per pietà.
    Uscii di casa senza fare tappa al BarBaro e mi diressi in città. Mi era venuta un’idea carina: siccome erano già più di tre mesi che non scopavo (l’ultima volta era stato con una stupenda prostituta di Amsterdam, l’estate scorsa, quando avevo trascorso qualche giorno di vacanza in Olanda con Smoke), una bottarella con una bella slava – per me le migliori tra quelle che battono i viali cittadini – ci stava a pennello. Vorrei far notare che in vita mia ho quasi sempre scopato in cambio di denaro, ma per quelli come me, “brutti, sporchi e cattivi”, è dura tirare avanti altrimenti. Siamo figli della solitudine e prendiamo a calci in culo la vita, perché ci ha ingannati buttandoci nell’arena disarmati.
    Giunto sui viali accostai la Panda al marciapiedi; avevo notato una ragazza dal viso dolcissimo che non doveva avere più di ventidue ventitré anni.
    “Come ti chiami?” le chiesi.
    “Maida.”
    “Quanti anni hai Maida?”
    “Diciotto.”
    Provai un fremito di compassione per quella fragile creatura, probabilmente incappata in qualche giro malavitoso e strappata agli affetti più cari per vendere la sua purezza in una lontana e squallida città italiana. No non sono uno schifoso, pensai, non la userò come ho usato tutte le altre puttane; la amerò se mi permetterà di amarla.
    “Quanto vuoi per sco… fare l’amore?” domandai.
    “Cinquantamila bocca figa. No culo.”
    “E in camera? Ce l’hai la camera?”
    “Camera centomila.”
    Andammo nel suo appartamento, un buco dove chissà quanti uomini – turpi derelitti come me – erano già passati. Era un angusto monolocale con un bagno sudicio e piccolissimo ed un letto a due piazze. Quest’ultimo era l’unico oggetto della stanza a sembrare pulito; tutt’intorno invece, pur senza notarsi chiaramente, si percepiva un senso di sporcizia, disordine e squallore. C’era puzza di piscio e fumo misti a profumo (forse quello usato dalla ragazza), tanto da rendere l’aria sgradevole, quasi nauseabonda.
    Volli parlare un po’ prima di consumare la prestazione insieme ad un’altra fetta di autostima, ma Maida non aveva voglia di ascoltarmi. Iniziai ad accarezzarla, lei si alzò dal letto di scatto e andò in bagno. Andai in bagno anch’io e la sorpresi china sul lavandino intenta a tirare della coca. Puah!, la coca: l’anno scorso con una prostituta nigeriana feci una figura terribile; non che mi importasse troppo fare figuracce con le puttane ma quella sera, sul mio Pandino, dopo aver tirato della fecola il mio gioiello non ne voleva sapere di alzarsi, era morto stecchito. A me quella roba fa quell’effetto lì, è per questo che non la uso mai se devo scopare.
    Maida mi chiese generosamente se volevo favorire e io ovviamente rifiutai. Tornammo in camera e cominciammo a spogliarci; tentai di baciarla ma lei si arrabbiò e respinse le mie labbra lontano dalla sua bocca. Stupida puttanella, pensai in quel momento, se solo fossi meno fredda e più accondiscendente potrei anche cambiarti questa tua vita di merda, farti uscire da questo schifo. Fantasticavo un’esistenza più decente per lei e per me, insieme; io salvavo la sua vita e davo una svolta alla mia, come in quelle favole che finiscono con il classico “e vissero tutti felici e contenti”. I miei sogni ad occhi aperti vennero bruscamente interrotti quando mi infilò un preservativo e cominciò a lavorare di bocca. Pochi istanti dopo la penetrai e me ne venni dopo pochi colpi mentre lei fingeva di godere. Tutto era finito, come finita era la mia dignità.
    Quando salii in macchina per tornare verso casa a vedere di recuperare Fetuso e Smoke, mi venne da piangere. Pensai a Lisa. Lisa è l’unica ragazza che considero mia amica; siamo cresciuti insieme, dall’asilo fino alle scuole superiori. Solo che mentre io sono sempre stato cotto di lei, lei mi ha sempre considerato come un fratello. Non ho mai capito come funzionano ‘ste cose da donne, fatto sta che la storia è questa: siamo diventati adulti e mentre io sono rimasto il povero innamorato non corrisposto che per campare fa l’operaio in una ditta che produce suole per scarpe, Lisa è diventata una stimata arredatrice che ha sposato Michele Bonfiglio, quel bullo di un nostro compagno delle superiori, avvocato, ricco, bello e tanto stronzo.
    Non so perché pensai a queste cose; a volte il passato ritorna a ricordare ai falliti che sono tali. “Se mi si guardasse per quello che ho in fondo al cuore, forse, potrei illuminare due sentieri sterrati e farne una strada lastricata d’oro” riflettei sostituendo Lisa con Maida nella mia mente.
    Mentre imboccavo un tratto di viale per immettermi in tangenziale, non vedo la Mercedes del Bonfiglio con lui alla guida che carica una Nigeria! Da non crederci, cioè, sapevo che era sempre stato un dongiovanni a cui bastava una strizzatina d’occhio per farsi  tutte le ragazze che voleva (e quante se ne era fatte!!!), ma adesso che era sposato con Lisa e aveva tre figlie piccole pensavo si fosse calmato. E poi a puttane non ce lo vedevo proprio, pensavo che uno come lui non sapesse neppure cosa fosse una prostituta. Guarda guarda Michelone: pensi al diavolo e spuntano le… corna… Povera Lisa! Gli sono stato dietro per un po’ con la Panda, poi ho messo la freccia, mi sono affiancato alla Mercedes e ho suonato il clacson; quando si è voltato posso assicurare che se avesse visto un fantasma avrebbe assunto un’espressione meno grottesca e spaventata. Gli ho strizzato l’occhio salutandolo, l’ho sorpassato e sono tornato verso il BarBaro.
    Anche se l’affetto e l’amicizia che ci lega – nonché, non posso negarlo, un briciolo di antipatia e invidia nei confronti di Michele – mi invoglia a farlo, a Lisa non dirò niente. Forse perderei anche il “premio di consolazione” dell’amicizia, forse non mi crederebbe mai, forse rovinerei solo una famiglia felice o pseudotale. E comunque non sono fatti miei, il buon marito può stare tranquillo. Lisa ha fatto la sua scelta, ha trovato l’uomo dei sogni, il buon partito, e credo che morirà ignara di quello che c’è sotto la maschera, ignara come Maida, ignara di ciò che le avrei potuto dare se mi avesse mostrato dolcezza, comprensione, amore. Ci sono talmente tante persone finte là fuori; basta abbassare un attimo il finestrino della Panda che l’odore di falsità invade l’abitacolo. Tra i miei pochi pregi, sono orgoglioso di avere almeno quello dell’onestà e della sincerità. Nessuna maschera può coprire quello che sono, uomo nudo, solo e deluso.
    Che strano, una volta messo piede dentro al BarBaro, rivisti Smoke e Fetuso, ero tornato di buon umore; una strana felicità mista a un forte senso di malinconia permeava il mio cuore. Mi sono sentito come il biglietto del primo premio della lotteria miliardaria smarrito dal possessore: varrei una fortuna, ma non verrò mai incassato.

UNA SERA AL BAR PINETA

Il cielo è terso, privo di nuvole. Il tramonto colora la città coi suoi pastelli rossi e arancio e marroni mentre tutto emana energia fuori, già, fuori, ma fuori dove? Dentro, seduto ad un tavolo del bar Pineta, intento a giocare a scala quaranta con Fabri, il Rosso e Cambogia tutto è statico, non c’è pathos. D’altra parte come potrebbe? Lo capisco solo dopo l’ennesima birra, la sesta forse. Al di là della vetrata, sulla strada, transitano ragazzi e ragazze, uomini, vecchi, bambini, storpi ed effeminati, puttane e barboni. Mentre scendo con due tris d’assi e uno di donne – scartando un re di picche – guardo fuori e mi soffermo col pensiero su quel pulsare di cosmica vitalità; persino l’ultimo derelitto sulla faccia della terra mi appare più fortunato di me all’esterno del Pineta.
    “Che cos’ho che non va?” mi domando osservando il jolly appena pescato che non mi consente, metafora della mia pedestre esistenza, di chiudere la partita una volta per tutte. Quattro carte in mano, un jolly e non riesco a vincere. Scarto un fante di cuori. Cos’ho dunque che non va? Cosa abbiamo che non funziona noi topi da bar che a quarantacinque anni ci sentiamo vecchi, apatici, stanchi come chi dalla vita ha ricevuto solo bastonate? Facciamo parte di una generazione perdente, come affermò una volta Cambogia: “La nostra ragazzi si chiama Generazione Inerzia”. Forse aveva ragione.
    Mi accendo una sigaretta, come se non ci fosse già abbastanza fumo in quei due metri quadrati che occupiamo io, il Rosso, Fabri e Cambogia, tutti occupati a giocare, in silenzio, fumando una sigaretta dopo l’altra, una birra dopo l’altra, un giorno dopo l’altro. Cosa significa giocare a carte? Passarsi il tempo? Perché abbiamo sprecato tutto quel tempo fino ad oggi (e continueremo a farlo) mentre là fuori, oltre l’opaco vetro il mondo pullula di opportunità? Le opportunità sono per chi se le crea, non per noi, uomini vinti dal tempo e dallo spazio: non abbiamo più scampo, imbelli scommettitori di spiccioli e birrette.
    Beppe, il titolare, ci avverte che tra dieci minuti chiude bottega. Gli dico che abbiamo quasi finito, un’altra birra per tutti e ce ne andiamo, offro io il giro ai ragazzi. Tocca di nuovo a me pescare: un altro jolly e, incredibile, non riesco ancora a chiudere. Sono troppo sfigato! O forse non sono bravo, fatto sta che pesca il Rosso e chiude la partita. “Ho vinto!” esclama l’amico. Mi alzo vacillante, trangugio tutto d’un fiato la birra che ha appena portato Beppe e dico: “No, non hai vinto. Nessuno ha vinto. Noi, Rosso, non si vince”.
    Esco dal bar Pineta avviandomi verso casa; la sera è fresca, si sta bene e si respira una brezza positiva: sembra che l’amore e la speranza, la felicità e tutto ciò che di bello c’è al mondo mi aspettino dietro l’angolo. Svolto l’angolo e ci trovo solo il desolato viale alberato che conduce all’appartamento dove abito. Tutto è un’illusione, l’alcol mi sta ingannando. Io sto invecchiando e ho paura. Dopo aver superato i venticinque anni ho avuto l’impressione che il tempo volasse via al ritmo di un anno ogni sei mesi e temo che sarà sempre più celere… Mah! Forse sono solo troppo ubriaco, troppo ubriaco anche per avere dei sogni e focalizzare una vita fatta su misura per me. Non chiedo tanto: una donna di poche pretese, casalinga e madre attenta, uno o due figli, un lavoro migliore del mio attuale di magazziniere, due soldi in più, un televisore con megaschermo per riunire gli amici a casa e seguire le partite della nostra squadra del cuore senza doverci rintanare nella bolgia del Pineta. Infine una vecchiaia tranquilla e appagata. No, non chiedo tanto alla vita o a quel famoso dio, se esiste. O a me stesso! Boh, ora so solo che non posso tornare a casa conciato così.
    Mi siedo su una panchina nell’attesa che evapori un po’ la sbronza. Mi sdraio. Il sonno alcolico mi trasporta in un mondo onirico abitato da mostri ed esseri demoniaci. Quando mi sveglio non c’è più nessuno in giro; è notte fonda e la prima cosa che mi passa per il cervello è che domani sarò troppo sobrio e impaurito per affrontare la vita. Per quelli come me, il Rosso, Cambogia, Fabri, per noi quarantacinquenni della Generazione Inerzia è più comodo vincere una partita a carte che non scommettere contro il destino per cercare di cambiarlo; per quelli come noi non ci sono mai state prospettive perché non abbiamo saputo (o errore ancora più grave: non abbiamo voluto) giocarci i jolly che la vita, sia pure infame e stronza finché si vuole, ci ha fatto pescare per strada ogni tanto.
    Mi accingo a varcare il portone del civico numero 21. E’ probabile che mia madre mi stia ancora aspettando davanti al televisore acceso (a me le carte, a lei la tv!). “Non ti preoccupare Mà, ero a giocare a scala con gli amici del Pineta” le dirò. Così se ne andrà a dormire serena e inconsapevole, come quell’uomo sprecato che è divenuto ormai suo figlio.


venerdì 10 febbraio 2012

A CALDO

Questo racconto sta per compiere dieci anni; lo scrissi nell'estate del 2002 di ritorno da un viaggio in Sardegna, terra splendida e affascinante quando non contaminata dal turismo di massa cafone e irrispettoso. Si parla di speranza e passione anche qui: speranza nell'amore (di e per una donna) e passione per la scrittura. Buona lettura.

A CALDO


Il treno avanzava lento e annoiato lungo la costa toscana verso casa. Lorenzo guardava fuori, con la testa appoggiata al vetro polveroso, la natura rigogliosa scorreva davanti ai suoi occhi verdi e sottili.
    Che bello viaggiare, pensava, che bello filare via senza meta, per il semplice gusto di andare. La vita è una lunga strada, che senso ha osservarla da una poltrona?
    La Sardegna lo aveva affascinato, stregato: la gente, i luoghi, i profumi. Si sentiva sardo da sempre. Forse lassù hanno sbagliato a farmi nascere e crescere in Emilia, si disse.
    Ma ancor più del posto, Lorenzo era rimasto incantato da Eleonora, splendida quarantenne che lo aveva ospitato a Cagliari per valutare la realizzazione di un ambizioso progetto letterario essendo a capo di una importante casa editrice.
    Rientrava a Bologna con in mano un importante contratto per la stesura di un romanzo e con qualcosa di più indefinibile, una ricchezza luminosa aggiunta al suo cuore. Pensava malinconicamente che una volta giunto a casa, dopo aver conosciuto Eleonora, le persone che facevano parte e che avrebbero fatto parte del suo ambiente, coloro che lo circondavano, gli sarebbero sembrate più insipide.
    All’andata si era imbarcato da Civitavecchia; sarebbe rimasto a Cagliari una settimana per discutere del romanzo e del contratto. Si era portato appresso due libri, “Belli e dannati” e “Viaggio al termine della notte”, anche se sapeva benissimo che mai e poi mai sarebbe riuscito a leggere. Lo considerava un suo grande difetto, ma quando era in viaggio non riusciva né a leggere né a scrivere; era troppo impegnato a leggere i nuovi mondi che lo accoglievano, anestetizzando per il momento la spinta creativa e la capacità di concentrazione sulle parole scritte. Gli sarebbe piaciuto leggere almeno qualche pagina di Celine visto che erano mesi che cercava la predisposizione giusta per quel libro, invece nulla, ancora un tentativo andato a vuoto.
    Il treno si fermò alla stazione di Grosseto. Salì una donna anziana, una tipa eccentrica con un vestito di seta marrone alquanto demodé ed i lunghi capelli bianchi qua e là ridicolizzati da posticce ciocche cremisi. Si mise a sedere di fronte a Lorenzo, estrasse dalla borsetta anni Ottanta un libro di Kahlil Gibran e si immerse profondamente nella lettura. Il giovane immaginò la donna una vecchia artista, forse una pittrice, una creatura balzana dalla grande solitudine che traspariva da un volto segnato dalle rughe e dall’emarginazione, emarginazione che ammanta l’esistenza di chi possiede una natura creativa.
    Scacciò il triste pensiero arrecatogli dalla signora e si abbandonò al ricordo di Eleonora. Dopo tre giorni di discussioni, approfondimenti, sguardi ammiccanti e sorrisi ingenui, si erano ritrovati a casa dell’editrice a fare l’amore. Disteso sul letto Lorenzo era incredulo; accanto aveva una donna che sin dal loro primo incontro gli aveva trasmesso un’energia particolare, misteriosa. Si erano amati altre volte nei giorni seguenti, in un climax passionale che li avrebbe portati alle soglie del paradiso se solo avessero potuto godere della compagnia reciproca per più tempo. Le loro anime erano entrate in simbiosi all’unisono con i loro corpi. I quindici anni che dividevano il giovane Lorenzo da Eleonora si azzeravano riportando il tempo, lo spazio, le emozioni e gli istinti ad uno stato primordiale di purezza assoluta.
    Era certo che non perché era stato amante di Eleonora era riuscito a firmare il contratto per il libro, però di tanto in tanto affiorava dall’inconscio la tormentosa possibilità che se tra loro due non fosse nata quella complicità affettiva e sessuale, ora sarebbe stato lì su quel treno senza progetti letterari da realizzare per l’imminente futuro.
    “Scusi, mi sa dire che ore sono?” chiese la stravagante signora che gli stava di fronte.
    “Le sei e cinque” rispose Lorenzo.
    Tra circa tre ore sarebbe arrivato a Bologna. Eleonora sarebbe rimasta lontana eppure eternamente dentro di lui. Finalmente avrebbe risolto, con quella firma in calce al contratto, molti dei suoi problemi economici. Era sereno, rilassato, confortato e refrigerato dal ricordo, anche se in un torrido giorno di fine giugno su quel treno faceva un caldo soffocante. Assaporava il gusto delle emozioni violente, emozioni a caldo, emozioni che il tempo non avrebbe mai raffreddato. Chiuse gli occhi e seppe. Seppe che in futuro avrebbe scritto grandi cose.

giovedì 2 febbraio 2012

ESPERIMENTI

Seguono alcuni di quelli che definisco "esperimenti", vecchi racconti improvvisati e impulsivi il cui leit motiv sembra essere la Morte. Nel primo racconto, la morte assume un significato negativo: morte dei sentimenti, morte dell'intelligenza, morte della cultura e delle proprie radici. Negli altri due invece, la morte diventa... vita! Buona lettura.


VATTELAPPESCA

 C’era una volta. Con queste parole Attila Vattelappesca cominciava ogni sua storia. Erano gli inizi del Novecento in un paesino del Reggiano noto come Torre Scudo. Attila era un anziano rapsodo di presunta origine ungherese e sbarcava il lunario grazie alle oblazioni – spesso sostituite da offerte di cibo – che i torrescudesi elargivano con simpatia a quel vegliardo, pronto ogni sera delle settimana, d’estate o d’inverno, con la pioggia o con il sole, a donare qualche momento di relax e intrattenimento nella piazza del paese dopo cena.
    Tutti stimavano e rispettavano Attila e anche se la maggior parte degli abitanti del piccolo centro emiliano erano contadini analfabeti, chiunque percepiva nelle parole del cantastorie un senso profondo di saggezza pur non carpendo sempre il significato di certi concetti e quello più immediato di molte parole.
    Torre Scudo contava all’epoca trecentododici abitanti, e otto famiglie su dieci erano impegnate nella coltivazione diretta della terra. Scoppiò la Grande Guerra e anche l’Italia entrò nel conflitto. Nel giro di pochi mesi Torre Scudo cambiò completamente fisionomia; infatti nei pressi del torrente Teresina sorse una delle più grandi fabbriche italiane specializzata nella produzione di filo spinato e badili, materiali utili per la costruzione di trincee. Il risultato fu che il novanta per cento dei lavoratori agricoli passò all’industria bellica, o meglio, filobellica; l’interesse della gente per le storie di Attila venne meno, le preoccupazioni e il duro lavoro in fabbrica – assai più duro di quello nei campi – esaurirono pian piano la voglia dei torrescudesi di uscire la sera. Il povero rapsodo si trovò presto a patire la fame. Certo, avrebbe potuto cambiare paese, ma sentiva dentro di sé una strana angoscia, il presentimento razionalmente immotivato, che ovunque fosse andato, nessuno avrebbe più ascoltato le sue parole.
    La prima guerra mondiale finì e il ritorno della pace ebbe la conseguenza di mandare la fabbrica in rovina; venne però acquistata da un facoltoso abitante di Torre Scudo che la trasformò in azienda agricola privata. Si diceva allora che costui, avendo lungamente viaggiato, fosse un ottimo conoscitore di quasi tutti i dialetti italiani e avesse sfruttato questa sua abilità per redigere un vocabolario che servì ai soldati italiani (ragazzi del Nord uniti a ragazzi del Sud separati però da grossi problemi linguistici) per meglio capirsi nelle trincee. Il capo del governo Salandra fece acquistare migliaia di copie del vocabolario e grazie a questa geniale trovata il poliglotta reggiano divenne ricco.
    I torrescudesi tornarono così a lavorare la terra, ma mentre prima coltivavano appezzamenti di loro proprietà, ora si ritrovarono alle dipendenze di un grosso latifondista che aveva investito i guadagni di un conflitto estremamente proficuo per quel che lo riguardava. Attila sperò che la chiusura della fabbrica di badili e filo spinato seguita all’armistizio avrebbe riportato le famiglie in piazza. Così fu, ma nessuno era più interessato ad ascoltare quel bizzarro ottuagenario. Egli notò una luce strana negli occhi di tutte quelle persone: i loro atteggiamenti cambiarono drasticamente, tanto che alcuni iniziarono a disprezzarlo; gente che lo aveva sempre aiutato elemosinandogli anche solo un pezzetto di pane ora lo evitava, altri lo irridevano con crescente pervicacia e un giorno una giovane madre gli sputò addirittura in faccia. Non si capacitava del fatto che i torrescudesi, un tempo amici e entusiasti spettatori delle sue recite, lo trattassero adesso come un appestato. Volle individuare un capro espiatorio nell’avanzare strisciante del progresso, ma non ne era così sicuro. Intuiva qualcos’altro nell’aria, qualcosa di più subdolo, virulento e pericoloso; il mondo avrebbe preso un ritmo troppo frenetico e la sua intelligenza gli permise di farsi un’idea sul futuro. Rabbrividì.
    Una notte di inizio estate dei primi anni Venti, Attila Vattelappesca venne avvicinato nella piazza di Torre da Tonino, il figlio di Ilde e Carletto Donini. Era accompagnato dai due genitori, forse le sole persone rimaste che lo avessero ancora in simpatia tanto da fargli quel po’ di beneficenza che gli permetteva di tirare avanti negli ultimi anni di una vita vissuta in compagnia dell’immaginazione e del rispetto per gli altri esseri viventi.
    “Signor Attila” disse Ilde, “Tonino ha tanto insistito per ascoltare la storia di “Fiorello il cammello” che abbiamo dovuto portarlo qui da voi, altrimenti ci faceva diventare matti. Però se non volete raccontargliela, non c’è problema, non vogliamo disturbarvi.”
    A queste parole Attila Vattelappesca sorrise; era un sorriso infantile e puro come solo il sorriso di un bambino può essere.
    “Certo che la racconterò. E con tanto piacere” rispose il cantastorie.
    Era tanto tempo che non narrava più le sue avventure in prosa o in versi e da qualche tempo aveva programmato di tornare da dove era venuto, benché nessuno sapesse da dove venisse realmente. Quella, pensò, sarebbe stata la sua ultima interpretazione. “Fiorello il cammello” era un apologo molto amato dai suoi ascoltatori in passato. Parlava di Fiorello, un cammello dell’Asia (quelli con due gobbe) che si perdeva nel deserto e si ritrovava in un’oasi abitata solo da cammelli dell’Africa (i dromedari, con una sola gobba). Inizialmente emarginato e schernito da tutti, diventò il re dell’oasi, da tutti rispettato, quando un ricco arabo si stabilì nell’oasi e fece di Fiorello il suo cammello personale. Tonino, che aveva otto anni, aveva sentito spesso i suoi genitori raccontare quella storia prima di addormentarsi la sera, ma quando seppe che loro l’avevano imparata da quel vecchietto triste che passeggiava tutto il giorno per Torre Scudo e che quando lui la raccontava era come se i cammelli si materializzassero veramente nella piazza, non aveva più smesso di tormentare mamma e papà per farsi portare da Attila.
    Gli anni e la delusione avevano consumato il rapsodo rendendolo l’ombra di se stesso. Non aveva più molto da campare, però quella sera la felicità, apparsa con le sembianze di Tonino e dei suoi genitori, era tornata a bussare al suo cuore. Ilde, Carletto e il figliolo si sedettero sui gradini di pietra dell’ingresso della Trattoria Strozzi, mentre Attila, eretto come un giovane aitante attaccò con il suo commiato: “C’era una volta…”


APOLOGIA DELLA MORTE


La scena si svolge all’interno di una camera da letto. L’appartamento è quello di Zoe, pittrice di belle speranze già ben inserita nel mondo accademico della sua città. Insieme a lei, sotto le coperte dell’ampio matrimoniale, Mario si sta godendo distrattamente una sigaretta post coito. Mario è un noto critico d’arte che ha saputo investire il suo istrionico carattere e l’eccellente facondia in numerose ospitate al Maurizio Costanzo Show. Zoe è cinica: sa che una buona impressione – sia sotto le coperte, sia mostrando la propria arguzia nonché il talento già per altro riconosciuto da più parti – le potranno permettere di scalare molto più velocemente i gradini del successo. Ma allo stesso tempo, Zoe non è disposta a sacrificare l’ispirazione, l’abilità e la passione sull’altare della Morte…



Zoe: Intendimi Mario, io non sono cattiva, ma quando certi personaggi intralciano il mio lavoro a priori, tentando di stroncare le mie opere senza neppure averle viste, arrivo anche a dire atrocità del tipo: “Se muori vengo a pisciare sulla tua tomba!”. Da’ i brividi vero? Tutto sommato analizzando da un punto di vista pedagogico la nostra cultura, è comprensibile scandalizzarsi per una frase del genere; sin da mocciosi ci insegnano che la morte è un argomento tabù (guai a nominare lei, le emorroidi e il nome di dio invano), però io l’ho presa per mano e con lei ho passeggiato attraverso la vita e attraverso i miei quadri, facendomi beffe proprio di quella cultura di morte che i presunti maestri di vita pretendono di insegnarci.

Zoe è logorroica, entusiasta di poter ammaliare con quei discorsi per lei tanto profondi e intelligenti il famoso critico. Mario la ascolta silenzioso, ma sembra assorto in altri pensieri.

Mario (mentre spegne la sigaretta nel posacenere sul comodino): Ti seguo, vai pure avanti.

Zoe: Non vorrei mai essere tacciata di blasfemia, ma partiamo da qui intanto: tutte le religioni sono basate sulla cultura della morte. Mostrano ai fededipendenti una facciata solare per nascondere l’argilla sulla quale poggiano le loro fondamenta. Hanno fatto e sempre faranno più morti le religioni di qualsiasi altra dottrina, cataclisma, malattia o droga nel mondo.

Mario (guardandosi il pene floscio e pensando all’interminabile periodo refrattario che non gli consente a breve un’altra erezione per far tacere Zoe e tentare una decorosa tripletta  amatoria): Sì sì, non hai tutti i torti.

Zoe: Il progresso! Il progresso sotto tutte le sue forme ha insita una componente di morte non indifferente. Nessuno può mettere in dubbio che porti benessere, stabilità politica, sociale, economica, ma – tralasciando di chiosare sul tema della devastazione ambientale – per assurdo induce quasi proditoriamente l’individuo allo smarrimento di sé, rubandogli identità e contatto con il tempo e con lo spazio: in pratica non c’è mai abbastanza tempo quando in teoria dovrebbe essercene di più a nostra disposizione; e non c’è più spazio per muoversi liberamente. Anche se non ce ne accorgiamo siamo circondati da confini e dogane.

Zoe è sempre più presa dall’argomento anche se preferirebbe una disquisizione bilaterale con Mario, il quale appare ora ancor più assente. Zoe gli dà un simpatico buffetto sulla guancia per ridestarlo.

Mario (leggermente sorpreso da quel gesto): Parla pure, ti ascolto.

Zoe (accennando un sorriso): Il lavoro si basa sulla morte. Sgobbare al servizio di qualcuno, svolgendo compiti alienanti che annullano le proprie difese psicoimmunitarie significa morire. E per chi? Per il bene della comunità!!! Robe da pazzi. “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”: paese di schiavisti, dico io, altro che democrazia! E gli schiavi che compongono questo crogiolo laico-teocratico-oligarchico sono ancor più incatenati – metaforicamente parlando – dei veri schiavi dei secoli passati, perché questi ultimi erano in una condizione coatta, mentre i primi accettano il loro stato passivamente pur potendo fuggire. La differenza è notevolmente a discapito del lavoratore sostenitore della patria.

Con lo scilinguagnolo sempre più sciolto Zoe è un fiume in piena che dà l’impressione di straripare da un momento all’altro. Mario accende un’altra sigaretta per mascherare quell’apatia che anche Zoe ha notato.

Mario: Mmmmm!

Zoe: La politica con i suoi burattinai è, da destra a sinistra, una congrega di assassini. Divulga morte per interessi personali. Se mi rendessi conto che esiste qualche politico, sia esso un ex fascista, un ex democristiano o un ex comunista, non assorbito nel Death System probabilmente tenterei di individuare e votare il meno peggio e forse non avvertirei più quell’idiosincrasia parossistica nei confronti dei partiti che provo attualmente. La politica adotta questa tattica deplorevole per ottenere consensi: più morti ci sono, ovvero più ignoranza regna, più approvazione si ottiene; è una verità assiomatica.
Non parliamo poi di quello che non fa l’informazione per riscuotere interesse. I mass-media implorano la morte, la Dea Morte, per ottenere quello che vogliono. E quello che vogliono è condizionarci l’esistenza…

Mario: Mmmmmm!

Zoe: Quando poi politica ed informazione passeggiano a braccetto, beh, mi vien da pensare che il Cile di Pinochet non era poi così diverso da qui.
Dico solo questo e poi concludo questa apparente invettiva che è in realtà una perorazione in difesa della morte, un elogio alle sue proprietà ispiratrici: se tutta questa morte (morte della ragione, morte dei sentimenti, morte dei sogni, morte della passione…) non esistesse, io non sarei né una pittrice, né una donna, né un essere umano; sarei solo una ics, un nulla. Ciò perché non avrei stimoli. Per cui grazie morte, grazie di esistere. Grazie per la vita che mi doni…

Mario (titubante): Mmmmmmm! Zoe, mi chiedevo se… se… no nulla, concludi, concludi pure.

Zoe fa una breve pausa e intanto, vedendo Mario pensieroso, si crede certa di averlo impressionato, centrando in pieno il bersaglio.

Zoe: Beh ho praticamente finito. Aggiungo solamente che solo quando si parla di sesso non tollero interferenze con la morte. Quando la morte entra nel mio letto – e qualche volta è capitato – perdo l’ispirazione per settimane intere. Capisci? Certi uomini sanno solo parlare e non sanno scopare; io di quelli non me ne faccio niente. A cosa serve un uomo che non sa scopare?

Mario: Mmmmmmmmm! Boh!

Zoe: Come mai sei così pensieroso e serio? Quando sei in televisione sei tutt’altra persona. Cosa pensi della mia celebrazione della morte?

Mario: Mah! Non saprei, a dire il vero… non saprei proprio. Non ho seguito molto bene.Volevo chiederti piuttosto se… mmmmmmmmm… ti è piaciuto farlo con me? Sei venuta?



A questo punto il sipario si chiude. Si riesce a scorgere nella penombra il volto di Zoe. Almeno credo che sia Zoe; le ombre riflesse sul viso della ragazza deformano la sua fisionomia. Si fatica a distinguere la sua espressione per cui non sapremo mai cosa sia successo in quell’attimo. L’autore di questa piece teatrale (che io ho compendiato riducendola all’essenziale per motivi di tempo e di… spazio, come diceva la protagonista) aveva probabilmente pensato a un eloquente gioco di ellissi per concludere la sua opera, ma la pessima illuminazione del teatro gli ha rovinato tutti e cinque gli atti del suo “Apologia della morte”. Qualcuno fischia in platea, qualcun altro applaude. A me è piaciuta molto Zoe e visto che ognuno può crearsi il suo finale (non essendo chiaro quello dell’autore), mi piace pensare che la ragazza abbia messo da parte il cinismo e l’arrivismo e in un impeto d’orgoglio abbia scacciato… la Morte dal suo letto. Poi, visto che rimango nel regno della fantasia, voglio immaginare Zoe che si innamora di me che anche se non sono bravo a parlare e scrivo ancora peggio, almeno le porterei della vita dentro l’ alcova. Uh che bel finale, uh che bello!



LA METAMORFOSI DI NIK AMEBA NEL GIORNO DEL MATRIMONIO DI GARRONE


Quella sera Nik Ameba si sentiva un po’ depresso. Sullo schermo televisivo stavano scorrendo le immagini del Grande Fratello (guardava quel programma, anche se lo annoiava tremendamente, per poter partecipare alle conversazioni degli amici senza sfigurare) mentre la sua mente vagava su ben altri canali. Volto livido, emaciato, sedeva sul divano del salotto sorseggiando una camomilla, arresosi al fatto di dover passare una notte in bianco a causa dei crampi allo stomaco e del mal di testa diretta conseguenza della robusta sbronza che si era preso il pomeriggio al pranzo di ricevimento per il matrimonio dell’amico Garrone. Ricordava vagamente di aver importunato una ragazza e di essersi ritrovato disteso per terra . “Forse non ho mal di testa e di stomaco solo per colpa dell’alcol” pensò per un momento. L’ultima cosa che rammentava era lo sguardo dispiaciuto di Garrone mentre due o tre ragazzi lo riaccompagnavano alla macchina; pure chi lo avesse riportato a casa era un’incognita. Non ricordava nemmeno - nel climax di improvvise reminiscenze che lo stavano assillando - da quanto tempo aveva iniziato a ridursi sempre più frequentemente in uno stato al limite del pietoso: potevano essere sei, sette, otto mesi, forse un anno. Il motivo lo intuiva vagamente, anche se non aveva indagato per scoprirne le cause: si era rassegnato.
    Mandò giù l’ultimo sorso di camomilla e spense il televisore con un senso di sollievo, ormai estenuato dalla crescente, soverchia stupidità che scaturiva da Big Brother e dintorni. Alzò gli occhi sulla parete dietro al televisore; in concomitanza con l’inizio della sua crisi, sei, sette, otto mesi, forse un anno fa, Nik aveva iniziato ad appassionarsi alla fotografia, in particolare all’autoritratto: con l’autoscatto si ritraeva ogni giorno in decine di primi piani, immortalandosi in espressioni apparentemente sempre uguali che raramente differivano l’una dall’altra. In quel momento la parete di fronte a lui era completamente ricoperta di cornici contenenti la faccia smunta e quasi spettrale di Nik Ameba. Stava pensando di non essersi mai posto neppure lontanamente il perché di quella strana mania quando, ad interrompere il suo spleen, bussarono alla porta.
    “Oooooh!” esclamò Nik incapace di contenere lo stupore causato da quella sublime visione. Era la donna più affascinante che avesse mai visto in vita sua; gli si presentò.
    “Ciao Nik. Sono Regina. Tu non mi conosci ma ti seguo da tempo, mi interessi. Mi sono infatuata di te all’incirca un anno fa; credo sia giunta l’ora di venire allo scoperto.”
    Nik era scosso dall’avvenenza e dall’esuberanza di quella meravigliosa valchiria dai lunghi capelli biondi e dagli occhi di ghiaccio.
    “Da quando mi sono accorta di te” proseguì Regina, “ti seguo tutti i giorni; non mi crederai ma è così. Ti voglio, voglio che tu venga via con me!”
    Il ragazzo la guardava allibito senza riuscire a pronunziar parola.
    “Non c’è bisogno che parli” riprese. “Presto tornerò. Ti lascio il tempo di deciderti e prepararti.”
    “Chi sei?” riuscì a chiedere Nik. “Dove vuoi portarmi e perché sembri così certa che io ti segua?”
    “Non posso dirti nulla. Sappi però che ti porterò in un posto tranquillo, lontano, dove potremo rimanere per sempre soli, tu ed io. Pensaci Nik! Sai bene chi sono!”
    Udendo quelle ultime parole, si sentì mancare. Perse i sensi e cadde disteso sull’impiantito. Passò qualche istante e si ridestò con le parole “Sai bene chi sono!” che gli riecheggiavano in testa.   Dunque era stato un sogno? Ebbe appena il tempo di prendere coscienza di ciò che era avvenuto (Nel sogno? Nella realtà?) che la porta d’ingresso si chiuse, lasciandogli intravedere una lunga gonna nera che, svolazzando, scompariva nell’oscurità della sera. Ripiombò nel suo universo di elucubrazioni, un po’ frastornato ma deciso a scoprire chi fosse Regina e cosa avesse voluto dire con quelle poche frasi che avevano portato tanto scompiglio in quello che sarebbe dovuto essere un allegro giorno di festeggiamenti e spensieratezza.
    Nik si stava avvicinando a varcare la soglia dei trent’anni a cavallo di un passato felice e sereno; non riusciva quindi a capire quale ostacolo si fosse presentato a deviare la sua esistenza. Perché non trovava spiragli nel muro (di autoritratti?) che gli si ergeva davanti? Nelle decine di volti che lo stavano fissando non si scorgeva ombra di espressività: “Vorrà pur dire qualcosa!?” pensò. Era convinto non gli mancasse nulla: grazie a genitori benestanti, anzi molto ricchi, poteva permettersi quello che voleva a livello economico; il lavoro di vicedirettore dell’agenzia grafica del padre lo appagava non poco dal punto di vista professionale; aveva una ragazza da sei anni e anche se negli ultimi tempi per colpa sua il rapporto non era più rose e fiori come un tempo, stava bene con lei e la prospettiva di un imminente matrimonio era concreta. La amava molto eppure si era trovato poco prima a desiderare quella Regina come mai aveva desiderato nulla in cuor suo; sentiva di conoscerla già da diversi mesi, benché non la avesse mai vista, e già da tempo lui sapeva che un dì sarebbe apparsa a reclamarlo. Nonostante si sforzasse non riusciva a trovare il bandolo della matassa, non individuava il vorace verme che stava divorando i suoi giorni così velocemente.
    All’improvviso, come lo scolaretto che dopo interminabili tentativi e scervellamenti riesce a risolvere il problema di matematica quasi per caso, Nik comprese il significato recondito negli autoritratti. Quei volti, quelle espressioni fatue e seriali erano il compendio di una vita di APPARENZE. Ecco la parola chiave che cercava per aprire la cassaforte dell’inquietudine. Capiva così di aver vissuto fino a quel momento una vita di quantità e non di sostanza, indossando maschere diverse per ogni occasione. Dentro di lui aveva ceduto uno diga che stava annegandogli le emozioni più profonde, sentimenti che censurava per piacere ma non per piacersi. APPARIRE era stato il suo marchio di fabbrica per anni e anni, nel lavoro come in società e in famiglia; persino in compagnia di se stesso, nei momenti di solitudine. Ora provava il pressante e urgente bisogno di succhiare purezza dal seno dell’ESSERE.
    Si diresse verso il muro di fotografie. Staccò la più datata, un autoritratto risalente a circa un anno prima. Immaginò quel viso sulla lapide della sua tomba e subito dopo ebbe un accesso di ribellione; il meccanismo inceppato riprendeva a funzionare grazie a quel quid che gli avrebbe riempito il vuoto corrosivo del suo modo di vivere precedente. Si affacciò alla finestra del salotto che dava sul panorama della città, una tranquilla città al tramonto, e rifletté su quanto capzioso e frivolo fosse il mondo che lo aveva da sempre attratto. Sentì un brivido violento corrergli lungo la schiena e percepì che poteva ancora lottare contro il Nulla. Pensò: “Sì, vale proprio la pena vivere”. Compì allora un gesto eclatante e apparentemente insensato: staccò la spina del televisore e con una pedata ben assestata mandò in frantumi lo schermo, poi gettò fuori dalla finestra la cornice con l’autoritratto che teneva in mano, lontano, tra il labirinto di vicoli della città in procinto di addormentarsi. Lui no, non voleva addormentarsi. Quella notte sarebbe stato sveglio a crogiolarsi sugli allori della rivincita e della rinascita. La splendida creatura che lo aveva ammaliato poco tempo prima era tornata indossando un funereo abito nero e Nik Ameba le aveva chiuso la porta in faccia. Aveva ancora tempo e una nuova vita da cominciare.