In questi racconti del Pleistocene il tema principale è la Solitudine, ma non quella positiva che ispira e produce rumore, o meglio, musica; qui si tratta di una solitudine negativa, quasi straziante, una solitudine che, per fortuna, non mi appartiene più, sconfitta dalla voglia di vivere e dalla "luce".
VIALE SOLITUDINE
Sabato sera di fine gennaio. Dopo aver trascorso un
venerdì notte a bere porcherie in vari localetti della provincia, mi sentivo
veramente giù. Tra l’altro il sabato sera dalle mie parti è il giorno
consacrato all’uscita con la morosa, per cui quella sera sapevo già che uscendo
e recandomi al punto d’incontro della mia compagnia, il BarBaro, avrei trovato
solo Fetuso e Smoke, gli unici due sfigati insieme a me che nessuna donna
avrebbe mai filato, nemmeno per pietà.
Uscii di casa senza fare tappa al BarBaro e
mi diressi in città. Mi era venuta un’idea carina: siccome erano già più di tre
mesi che non scopavo (l’ultima volta era stato con una stupenda prostituta di
Amsterdam, l’estate scorsa, quando avevo trascorso qualche giorno di vacanza in
Olanda con Smoke), una bottarella con una bella slava – per me le migliori tra
quelle che battono i viali cittadini – ci stava a pennello. Vorrei far notare
che in vita mia ho quasi sempre scopato in cambio di denaro, ma per quelli come
me, “brutti, sporchi e cattivi”, è dura tirare avanti altrimenti. Siamo figli
della solitudine e prendiamo a calci in culo la vita, perché ci ha ingannati
buttandoci nell’arena disarmati.
Giunto sui viali accostai la Panda al marciapiedi; avevo
notato una ragazza dal viso dolcissimo che non doveva avere più di ventidue
ventitré anni.
“Come ti chiami?” le chiesi.
“Maida.”
“Quanti anni hai Maida?”
“Diciotto.”
Provai un fremito di compassione per quella
fragile creatura, probabilmente incappata in qualche giro malavitoso e
strappata agli affetti più cari per vendere la sua purezza in una lontana e
squallida città italiana. No non sono uno schifoso, pensai, non la userò come
ho usato tutte le altre puttane; la amerò se mi permetterà di amarla.
“Quanto vuoi per sco… fare l’amore?” domandai.
“Cinquantamila bocca figa. No culo.”
“E in camera? Ce l’hai la camera?”
“Camera centomila.”
Andammo nel suo appartamento, un buco dove
chissà quanti uomini – turpi derelitti come me – erano già passati. Era un
angusto monolocale con un bagno sudicio e piccolissimo ed un letto a due
piazze. Quest’ultimo era l’unico oggetto della stanza a sembrare pulito; tutt’intorno invece, pur senza notarsi
chiaramente, si percepiva un senso di sporcizia, disordine e squallore. C’era
puzza di piscio e fumo misti a profumo (forse quello usato dalla ragazza),
tanto da rendere l’aria sgradevole, quasi nauseabonda.
Volli parlare un po’ prima di consumare la
prestazione insieme ad un’altra fetta di autostima, ma Maida non aveva voglia
di ascoltarmi. Iniziai ad accarezzarla, lei si alzò dal letto di scatto e andò
in bagno. Andai in bagno anch’io e la sorpresi china sul lavandino intenta a
tirare della coca. Puah!, la coca: l’anno scorso con una prostituta nigeriana feci
una figura terribile; non che mi importasse troppo fare figuracce con le
puttane ma quella sera, sul mio Pandino, dopo aver tirato della fecola il mio
gioiello non ne voleva sapere di alzarsi, era morto stecchito. A me quella roba
fa quell’effetto lì, è per questo che non la uso mai se devo scopare.
Maida mi chiese generosamente se volevo
favorire e io ovviamente rifiutai. Tornammo in camera e cominciammo a
spogliarci; tentai di baciarla ma lei si arrabbiò e respinse le mie labbra
lontano dalla sua bocca. Stupida puttanella, pensai in quel momento, se solo
fossi meno fredda e più accondiscendente potrei anche cambiarti questa tua vita
di merda, farti uscire da questo schifo. Fantasticavo un’esistenza più decente
per lei e per me, insieme; io salvavo la sua vita e davo una svolta alla mia,
come in quelle favole che finiscono con il classico “e vissero tutti felici e
contenti”. I miei sogni ad occhi aperti vennero bruscamente interrotti quando
mi infilò un preservativo e cominciò a lavorare di bocca. Pochi istanti dopo la
penetrai e me ne venni dopo pochi colpi mentre lei fingeva di godere. Tutto era
finito, come finita era la mia dignità.
Quando salii in macchina per tornare verso
casa a vedere di recuperare Fetuso e Smoke, mi venne da piangere. Pensai a
Lisa. Lisa è l’unica ragazza che considero mia amica; siamo cresciuti insieme,
dall’asilo fino alle scuole superiori. Solo che mentre io sono sempre stato
cotto di lei, lei mi ha sempre considerato come un fratello. Non ho mai capito
come funzionano ‘ste cose da donne, fatto sta che la storia è questa: siamo
diventati adulti e mentre io sono rimasto il povero innamorato non corrisposto
che per campare fa l’operaio in una ditta che produce suole per scarpe, Lisa è
diventata una stimata arredatrice che ha sposato Michele Bonfiglio, quel bullo
di un nostro compagno delle superiori, avvocato, ricco, bello e tanto stronzo.
Non so perché pensai a queste cose; a volte
il passato ritorna a ricordare ai falliti che sono tali. “Se mi si guardasse
per quello che ho in fondo al cuore, forse, potrei illuminare due sentieri
sterrati e farne una strada lastricata d’oro” riflettei sostituendo Lisa con
Maida nella mia mente.
Mentre imboccavo un tratto di viale per
immettermi in tangenziale, non vedo la Mercedes del Bonfiglio con lui alla guida che
carica una Nigeria! Da non crederci, cioè, sapevo che era sempre stato un
dongiovanni a cui bastava una strizzatina d’occhio per farsi tutte le ragazze che voleva (e quante se ne
era fatte!!!), ma adesso che era sposato con Lisa e aveva tre figlie piccole
pensavo si fosse calmato. E poi a puttane non ce lo vedevo proprio, pensavo che
uno come lui non sapesse neppure cosa fosse una prostituta. Guarda guarda
Michelone: pensi al diavolo e spuntano le… corna… Povera Lisa! Gli sono stato
dietro per un po’ con la Panda ,
poi ho messo la freccia, mi sono affiancato alla Mercedes e ho suonato il
clacson; quando si è voltato posso assicurare che se avesse visto un fantasma
avrebbe assunto un’espressione meno grottesca e spaventata. Gli ho strizzato
l’occhio salutandolo, l’ho sorpassato e sono tornato verso il BarBaro.
Anche se l’affetto e l’amicizia che ci lega
– nonché, non posso negarlo, un briciolo di antipatia e invidia nei confronti
di Michele – mi invoglia a farlo, a Lisa non dirò niente. Forse perderei anche
il “premio di consolazione” dell’amicizia, forse non mi crederebbe mai, forse
rovinerei solo una famiglia felice o pseudotale. E comunque non sono fatti
miei, il buon marito può stare tranquillo. Lisa ha fatto la sua scelta, ha
trovato l’uomo dei sogni, il buon partito, e credo che morirà ignara di quello
che c’è sotto la maschera, ignara come Maida, ignara di ciò che le avrei potuto
dare se mi avesse mostrato dolcezza, comprensione, amore. Ci sono talmente
tante persone finte là fuori; basta abbassare un attimo il finestrino della
Panda che l’odore di falsità invade l’abitacolo. Tra i miei pochi pregi, sono
orgoglioso di avere almeno quello dell’onestà e della sincerità. Nessuna
maschera può coprire quello che sono, uomo nudo, solo e deluso.
Che strano, una volta messo piede dentro al
BarBaro, rivisti Smoke e Fetuso, ero tornato di buon umore; una strana felicità
mista a un forte senso di malinconia permeava il mio cuore. Mi sono sentito
come il biglietto del primo premio della lotteria miliardaria smarrito dal
possessore: varrei una fortuna, ma non verrò mai incassato.
UNA SERA AL BAR PINETA
Il cielo è terso, privo di nuvole. Il tramonto colora la
città coi suoi pastelli rossi e arancio e marroni mentre tutto emana energia
fuori, già, fuori, ma fuori dove? Dentro, seduto ad un tavolo del bar Pineta,
intento a giocare a scala quaranta con Fabri, il Rosso e Cambogia tutto è
statico, non c’è pathos. D’altra parte come potrebbe? Lo capisco solo dopo
l’ennesima birra, la sesta forse. Al di là della vetrata, sulla strada,
transitano ragazzi e ragazze, uomini, vecchi, bambini, storpi ed effeminati,
puttane e barboni. Mentre scendo con due tris d’assi e uno di donne – scartando
un re di picche – guardo fuori e mi soffermo col pensiero su quel pulsare di
cosmica vitalità; persino l’ultimo derelitto sulla faccia della terra mi appare
più fortunato di me all’esterno del Pineta.
“Che cos’ho che
non va?” mi domando osservando il jolly appena pescato che non mi consente,
metafora della mia pedestre esistenza, di chiudere la partita una volta per
tutte. Quattro carte in mano, un jolly e non riesco a vincere. Scarto un fante
di cuori. Cos’ho dunque che non va? Cosa abbiamo che non funziona noi topi da
bar che a quarantacinque anni ci sentiamo vecchi, apatici, stanchi come chi
dalla vita ha ricevuto solo bastonate? Facciamo parte di una generazione
perdente, come affermò una volta Cambogia: “La nostra ragazzi si chiama
Generazione Inerzia”. Forse aveva ragione.
Mi accendo una
sigaretta, come se non ci fosse già abbastanza fumo in quei due metri quadrati
che occupiamo io, il Rosso, Fabri e Cambogia, tutti occupati a giocare, in
silenzio, fumando una sigaretta dopo l’altra, una birra dopo l’altra, un giorno
dopo l’altro. Cosa significa giocare a carte? Passarsi il tempo? Perché abbiamo
sprecato tutto quel tempo fino ad oggi (e continueremo a farlo) mentre là
fuori, oltre l’opaco vetro il mondo pullula di opportunità? Le opportunità sono
per chi se le crea, non per noi, uomini vinti dal tempo e dallo spazio: non
abbiamo più scampo, imbelli scommettitori di spiccioli e birrette.
Beppe, il
titolare, ci avverte che tra dieci minuti chiude bottega. Gli dico che abbiamo
quasi finito, un’altra birra per tutti e ce ne andiamo, offro io il giro ai
ragazzi. Tocca di nuovo a me pescare: un altro jolly e, incredibile, non riesco
ancora a chiudere. Sono troppo sfigato! O forse non sono bravo, fatto sta che
pesca il Rosso e chiude la partita. “Ho vinto!” esclama l’amico. Mi alzo
vacillante, trangugio tutto d’un fiato la birra che ha appena portato Beppe e
dico: “No, non hai vinto. Nessuno ha vinto. Noi, Rosso, non si vince”.
Esco dal bar
Pineta avviandomi verso casa; la sera è fresca, si sta bene e si respira una
brezza positiva: sembra che l’amore e la speranza, la felicità e tutto ciò che
di bello c’è al mondo mi aspettino dietro l’angolo. Svolto l’angolo e ci trovo
solo il desolato viale alberato che conduce all’appartamento dove abito. Tutto
è un’illusione, l’alcol mi sta ingannando. Io sto invecchiando e ho paura. Dopo
aver superato i venticinque anni ho avuto l’impressione che il tempo volasse
via al ritmo di un anno ogni sei mesi e temo che sarà sempre più celere… Mah!
Forse sono solo troppo ubriaco, troppo ubriaco anche per avere dei sogni e
focalizzare una vita fatta su misura per me. Non chiedo tanto: una donna di
poche pretese, casalinga e madre attenta, uno o due figli, un lavoro migliore
del mio attuale di magazziniere, due soldi in più, un televisore con
megaschermo per riunire gli amici a casa e seguire le partite della nostra
squadra del cuore senza doverci rintanare nella bolgia del Pineta. Infine una
vecchiaia tranquilla e appagata. No, non chiedo tanto alla vita o a quel famoso
dio, se esiste. O a me stesso! Boh, ora so solo che non posso tornare a casa
conciato così.
Mi siedo su una
panchina nell’attesa che evapori un po’ la sbronza. Mi sdraio. Il sonno
alcolico mi trasporta in un mondo onirico abitato da mostri ed esseri
demoniaci. Quando mi sveglio non c’è più nessuno in giro; è notte fonda e la
prima cosa che mi passa per il cervello è che domani sarò troppo sobrio e impaurito
per affrontare la vita. Per quelli come me, il Rosso, Cambogia, Fabri, per noi
quarantacinquenni della Generazione Inerzia è più comodo vincere una partita a
carte che non scommettere contro il destino per cercare di cambiarlo; per
quelli come noi non ci sono mai state prospettive perché non abbiamo saputo (o
errore ancora più grave: non abbiamo voluto) giocarci i jolly che la vita, sia
pure infame e stronza finché si vuole, ci ha fatto pescare per strada ogni
tanto.
Mi accingo a
varcare il portone del civico numero 21. E’ probabile che mia madre mi stia
ancora aspettando davanti al televisore acceso (a me le carte, a lei la tv!).
“Non ti preoccupare Mà, ero a giocare a scala con gli amici del Pineta” le
dirò. Così se ne andrà a dormire serena e inconsapevole, come quell’uomo
sprecato che è divenuto ormai suo figlio.