venerdì 23 marzo 2012

L'UNGHIA DI BEGONIA

Quattordici anni fa nasceva questo racconto, racconto che ha tutti i difetti del mondo ma non si può certo dire che non sia spontaneo e non rappresenti uno... spaccato di vita, in tutti i sensi. Il titolo (il nome della protagonista) è stato cambiato dopo la sentenza del foro di Bilbao del 14 maggio 2009.

L’UNGHIA DI BEGONIA



Benidorm doveva essere la meta di una vacanza da sballo, di quelle da rievocare negli anni come la madre di tutte le ferie, il nonplusultra del divertimento, un’avventura da raccontare agli amici per far loro invidia e farli pisciare addosso dalle risate non appena ne avessimo sviscerato gli aneddoti più gustosi e persino i più insignificanti. Beh… così non fu. Ci sorbimmo ventuno ore di pullman solo per il viaggio di andata, ma questo è niente, eravamo preparati; pensavamo che ne sarebbe valsa comunque la pena. Non appena giungemmo a destinazione però, venimmo accolti da una sorpresa niente affatto simpatica: il nostro appartamento – prenotato con le migliori garanzie da parte dell’agenzia viaggi – era un sordido tugurio al decimo piano di un fatiscente palazzo privo di ascensore, ubicato in uno squallidissimo quartiere a cinquecento metri da una lurida spiaggia ispanica.
    “No problem!” dissi io per ringalluzzire l’animo sfiancato dallo sbigottimento e dalla stanchezza dei miei compagni di ventura, “è ora di tirare fuori il nostro spirito di adattamento. Fottiamocene e divertiamoci”.
    Questo era quello che pensavano anche loro, ma un secco “vaffanculo” saettato dalla bocca di Isola mi convinse a tacere per un po’.
    Eravamo partiti in quattro: io, Isola, Tano e il Cipputo. Tornammo a casa in due, nel senso che Isola e il Cipputo infarcirono talmente tanto i loro corpi con alcol e droghe che quando rientrammo in Italia, impiegarono due settimane per snebbiare la mente e riassumere una sia pur minima parvenza umana. Per quanto riguarda Tano, non fu di grande compagnia; infatti due giorni dopo il nostro arrivo in Spagna conobbe un ricco pederasta francese e passò quelle due settimane sullo yacht di Pierre Cocteau (detto il Marchese) tra effeminati giovincelli e glabri nonché nerboruti ragazzi in cerca di amore omo. Io trascorsi la prima settimana nell’allegra combriccola del Cipputo e di Isola, mentre i rimanenti giorni fluirono in uno stato di ascesi dove mi ritrovai a contemplare quella sconvolgente prima settimana. Se mai nella vita di un uomo si può parlare di punto di svolta drastico, io svoltai drasticamente proprio allora.
    Maria Giovanna, coca, hascisc, ecstasy, lsd, e chi più ne ha più ne metta; ci stavamo talmente appassionando al culto della droga che non uscivamo quasi più di casa. Eravamo curiosi di provare ogni tipo si sensazione addotta dalle sostanze stupefacenti. Per sei giorni non vedemmo né mare né sole, vivevamo di notte tra discoteche, rave party e locali di tendenza: qui mettevamo in pratica gli esiti e gli effetti del nostro hobby quotidiano. Fu proprio una di quelle sere che conobbi, al famoso Eku’s di Benidorm, Begonia, giovin pulzella di origine basca dalle forme sinuose e dal tenero visetto.
    Come ero fatto quella sera non lo sono mai stato, né mai lo sarò più – ne sono certo – in vita mia; ad ogni modo, non ricordo come, feci colpo sulla spagnoletta e la invitai al bancone del bar a bere qualcosa. Dopodiché seguii il classico rituale del giovane arrapato bramoso di sorcetta umida: piantai la lingua in bocca a Begonia e la invitai nel nostro appartamento. Non ci fu problema: già pregustava – come me d’altronde – le gioie del sesso, così prendemmo un taxi e via, destinazione Avenida de Mierda, vicino a Plaza de Schifo. Quando arrivammo su al decimo piano, la ragazza mi sembrava in splendida forma e ancor più bella di quando l’avevo conosciuta un paio di ore prima. Tutti quei piani saliti a piedi però mi accompagnarono boccheggiante alla meta e per riprendermi andai in bagno a tirare un po’ di coca della scorta personale di Isola. Ne uscii come nuovo e zompai letteralmente addosso alla chiquita. Ci spogliammo l’un l’altra e quando fummo nudi e crudi le infilai la mia bella nerchia pulsante su per quel soffice orifizio peloso che era la sua figa; ebbe un fremito di piacere accompagnato da un lungo sospiro, purtroppo però ero talmente eccitato che me ne venni quasi subito, lasciandola inappagata.
    “Excusame mucho” esclamai, “vado un momentito in bagno, e quando torno te inforco fino a romperte la fregna. Comprende?”
    Questa mi faceva di sì con la testa ma di sicuro non aveva capito nada. Comunque, vado in bagno a riassestarmi: cinquanta mila di benzina por favor… snifff… snifff e vamos; torno in camera e cosa vedo? Begonia a gambe aperte che si stava sparando un ditalino e gemeva, oh come gemeva quella troietta lussuriosa! Dissi: “Che Iddio abbia pietà di te!”. Era giunto il mio momento, Gigi era tornato in splendida forma, mi sentivo un leone pronto ad avventarsi sulla preda inerme. Dopo un po’ di preliminari penetrai la purchiacchella per il secondo giro e, beh, questa volta… tuoni e fulmini: la montai inizialmente nella posizione classica del missionario, poi la misi a pecora, infine fu lei a posizionarmisi sopra e qui venne tra spasmi violenti e grida da bovara. Io ne avevo ancora così decisi di metterglielo nel culo; a lei non dispiacque e un altro forte orgasmo la travolse. La mandai più volte in estasi poi anch’io me ne venni tra le sue belle chiappe sode. Quando chiusi gli occhi per rilassarmi pensai di avere appena terminato la più formidabile chiavata della mia vita.

***

Alle nove di mattina io e Begonia venimmo svegliati da Isola e dal Cipputo che rincasavano provenienti dal loro paese dei balocchi.
    Dopo averla un po’ palpata Isola svegliò la ragazza che, imbarazzatissima, si rivestì senza aprire bocca; la salutai dandole appuntamento per quella sera stessa sempre all’Eku’s poi la congedai con un bacio. Vedevo tutto annebbiato e tornai immediatamente a letto, constatando che i Fratelli Tossici, come li avevo soprannominati io, erano già belli stesi. Dormivamo in un'unica stanzetta: io nel letto matrimoniale con il Cipputo mentre Isola aveva occupato il piano inferiore del letto a castello, il cui coinquilino doveva essere Tano. Ma chissà che letti frequentava lui la notte.
    Verso le cinque del pomeriggio mi svegliai con l’odore del caffè che stava preparando Isola. Il Cipputo fumava una canna sul terrazzo e quando mi vide mi offrì un giro ma rifiutai perché avevo la testa che mi scoppiava. Bevvi il caffè mentre osservavo los amigos che con perseveranza  davano inizio all’ennesimo drug party. Oltre alla testa mi doleva anche lo stomaco, per cui mi ridistesi nuovamente sul letto dopo aver ingoiato un paio d’aspirine.
    A mezzanotte e trenta circa, il Cipputo e Isola mi svegliarono: era ora di andare alla “carica”. Io non stavo benissimo ma mi ero almeno ripreso dal mal di testa e di stomaco; fu così che me ne uscii per la prima volta dall’inizio di queste vacanze lucido e sobrio. Rifiutai pure un pastiglino di non so cosa che mi passò Isola dicendo: “Grazie ragazzi, ma oggi time out. Penso che rientrerò domani nella Toxic Company.”
    Quando arrivammo all’ Eku’s, i miei amici partirono in quarta alla ricerca di “carne” fresca da mettere sulla graticola della loro ardente euforia sessuale, mentre io, leggermente sofferente e un tantino abbacchiato mi sedetti su un divanetto sorseggiando un’aranciata amara. Ero lì che osservavo Isola darci di lingua con una quarantenne svedese quando mi resi conto di non ricordare assolutamente il volto di Begonia; nonostante mi sforzassi non riuscivo a focalizzare la sua fisionomia. Un fatto mi distolse da questi pensieri: una tipa grassoccia, butterata, con dei capelli unti e una pelle lucida da fare schifo si mise a sedere al mio fianco.
    “Hola! Como estas?” mi dice.
    “Bien!” rispondo io distrattamente.
    Passano pochi attimi e connetto tutto: è Begonia. Come ho potuto portarmi a letto un cesso di figa come quello? Quanta merda ho ingerito e inalato per intravedere anche solo un leggero barlume di fascino o bellezza in quell’aborto d’una putrida fregna? Deglutii saliva più volte, inorridendo palesemente al primo tentativo che fece di baciarmi; scansai quelle labbra grottesche con agilità, poi in uno spagnolo stentato cercai di spiegarle che non stavo bene e che avevo intenzione di tornare subito all’appartamento. Lei sembrò rattristarsi a questa notizia ma… fanculo!, io me la diedi a gambe. Senza neppure avvertire Isola e il Cipputo, corsi a prendere un taxi.
    Ero in casa da un’ora, sul terrazzo dell’appartamento a godermi la leggera brezza notturna e la splendente luna quando bussarono alla porta. Andai ad aprire un po’ infastidito per essere stato interrotto in quel piacevole momento contemplativo e chi mi trovai di fronte? Begonia. Aveva con sé un paio di bottiglie di vinello rosso di San Sebastian e un consistente pezzo di hascisc pakistano.     Essendo io una persona all’occorrenza abbastanza gentile e disponibile la feci accomodare; neanche il tempo di togliersi quell’orribile giacca kitsch che indossava che questa sgraziata creatura aveva già stappato la prima bottiglia. Non avevo nessuna intenzione di bere, ma quando mi resi conto che era l’unico modo per affrontare una situazione del genere, mi scolai  tutto il vino che aveva portato  nel giro di un’oretta. Finito che ebbi l’ultimo bicchiere, Begonia cominciò a gingillarsi con il mio Gigi e da quel momento non vidi più Begonia, non c’era più nessun barilotto nauseabondo davanti a me; c’era solo un buco nero, una foresta magica e rigogliosa, una Medusa che cercava di ipnotizzarmi il cervello e pietrificarmi l’uccello: ci riusciva benissimo.

***

Alle sette della mattina mi svegliai. Begonia era lì al mio fianco e ora, alla luce del giorno e con il cervello terso e connesso, risaltava in tutta la sua bruttezza. La osservai attentamente e… la annusai attentamente: come cazzo fa una persona appartenente alla specie umana a puzzare così tanto?! E soprattutto, come può uno come me scoparsi una cosa del genere? Provai un certo malessere mentre passavo lo sguardo sui suoi capelli, poi sui fianchi pienotti, sul sedere grassoccio, le cosce, i piedi… aaaaaah, mamma mia! Questa non aveva dei piedi, aveva un paio di zampe in necrosi purulento-degenerativa, due cimiteri profanati dal Dio Putrido. Sgranai gli occhi non riuscendo a credere a ciò che avevo davanti: nel piede destro, su cinque unghie, tre erano nere di sporcizia, una era avvolta da un cerotto e un’altra ancora era nera probabilmente perché schiacciata. Idem per il piede sinistro, con l’unica differenza che aveva un dito, l’alluce, ancora vergine e incontaminato. E che tanfo! Andai in bagno e vomitai.
    Sciacquandomi la faccia sotto il getto ghiacciato del rubinetto, pensai che se i miei amici (il Cipputo e Isola in stato di sobrietà per intenderci) si rendessero conto chi, anzi cosa mi sono chiavato, verrei sfottuto per il resto dei miei giorni.
    Influenzato da quest’ultima gaia possibilità, mentre Begonia ancora dormiva mi baluginò in testa un’idea che colsi nella sua estemporaneità; presi la Canon che ancora non avevo tirato fuori dalla valigia e cominciai a fotografarla, immortalando più che altro quei due piedi che se non se li curava, un giorno quella povera ragazza si sarebbe ritrovata con dei moncherini o con protesi artificiali. Con l’autoscatto mi fotografai nelle posizioni più idiote: annusandole (fingendo!!!) i piedi, il culo, le ascelle… Sì lo so che ero un demente delirante in questa valle di lacrime, il problema era che non me ne rendevo conto e non mi dispiaceva affatto esserlo.
    Quando verso le otto e trenta tornò a casa Isola con la sua svedesona (il Cipputo , come ho appurato in seguito, era a farsi sbocchinare da una minorenne olandese), venni come assalito da un raptus di follia isterica; svegliai Begonia a calci nel culo e la trascinai fuori dalla porta nuda, tirandole dietro i vestiti.
    “Hijo de puta!” mi grida lei incazzata.
    “Vai via balenottera di merda, e non farti più vedere!” replico io mentre ero già sotto la doccia a scrollarmi di dosso quell’alone di apocalisse, quella sensazione di aver contratto la peste bubbonica che mi aveva lasciato quella passera mefitica.
    Lì, con l’acqua gelida che scorreva su tutto il corpo e che mi arrecava un piacere quasi orgiastico, sentii un grido proveniente dalla camera da letto. In procinto di essere cavalcato dalla Ingrid, Isola si era conficcato l’unghia dell’alluce marcio di Begonia nella chiappa sinistra. Mi precipitai in suo soccorso e gli estrassi accuratamente l’arma letale dal sedere poi, quando stava ancora imprecando, gli consigliai di andarsi a disinfettare se non voleva beccarsi il tetano o una qualche forma sconosciuta di virus. Aiutato da Ingrid, l’amico andò a detergersi la ferita in bagno dove poco dopo proseguì l’amplesso sulla tazza del cesso.
    In cucina stavo analizzando quell’unghia quando… visione celeste, crisi dell’Io… non so bene cosa mi accadde ma decisi che quel pezzetto disgustoso del piede di Begonia sarebbe diventato un cimelio, un amuleto da conservare, da adorare; un antisfiga, un portafortuna, insomma… la mia unghia custode. Dopo tutto mi aveva insegnato una bella lezione, anzi più di una, che misi in pratica a partire da quel giorno stesso: primo, basta con le droghe almeno quelle pesanti e in quantità smisurata; secondo, avevo fatto beneficenza a una ragazza inguardabile e potevo essere felice di aver fatto del bene, ma da allora in poi… solo offerte in denaro; terzo, ho imparato che alla disgregazione cerebrale e morale (la mia) e materiale (quella di Begonia) non ci sono limiti percepibili dai diretti interessati quando si entra nella spirale che porta verso il fondo; infine – ma questo l’ho imparato molto tempo dopo – io vedevo in Begonia una diseredata, un relitto ambulante, giovane ragazza che giocava la disperata partita contro la solitudine così come qualunque altra persona in grado di decodificare i miei comportamenti e la mia personalità corrosa e corrotta dalla precarietà esistenziale della vita stessa avrebbe visto che non valevo né più né meno quello che valeva lei. C’era solo una differenza rilevante, e cioè che probabilmente Begonia non aveva e non avrebbe mai avuto la possibilità di condurre il gioco (sia bene inteso che non dico questo riferendomi al suo aspetto esteriore, valuto bensì alcuni aspetti che mi suggeriscono che la spagnola era una persona scialba), mentre io la capacità di comandare il mio destino l’avevo avuta. Ma ho perso la partita.

***

A distanza di parecchi anni da quella vacanza in Costa Blanca, non ricordo quasi più nulla di quei giorni. Gettai via persino il rullino con le foto di Begonia prima ancora di tornare a casa e mai, mai ho riso di quelle avventure.
    Tano si è stabilito in Thailandia a vivere nell’harem del Marchese e non ho più contatti con lui da almeno tre anni. Il Cipputo fa continuamente la spola fra il carcere ed una comunità per il recupero di tossici. Isola, beh lui è morto alcuni mesi dopo il rientro da Benidorm: sua madre lo trovò nel bagno con la siringa ancora penzolante dal braccio. La maledizione di Begonia non era stata esorcizzata con il disinfettante e non lo aveva perdonato.
    Allora si voleva partire per spaccare il mondo; ci siamo spaccati noi stessi, trascinati nel vortice del nulla, nel vuoto che avevamo dentro e che non riuscivamo a colmare se non con “stupefacenti” giochi di prestigio. Come finì quella vacanza? Che importa come finì. Basti sapere che quando il proprietario dell’appartamento ci presentò il conto, noi lo saldammo senza sapere quanto alto era stato in realtà il prezzo pagato alla nostra voglia di evasione.
    Quando ancora oggi osservo l’unghia di Begonia, che porto sempre al collo gelosamente custodita all’interno di un ciondolo di cristallo appeso ad una catenina d’oro, mi affiora alla mente il ricordo dei miei amici e i fantasmi della nostra giovinezza si materializzano a inquietarmi l’anima.
    “Che cos’è quella schifezza che hai al collo?” mi chiedono spesso.
    “E’ l’unghia di una Dea crudele” rispondo io, “che venne uccisa dall’ancor più crudele ferocia di un essere umano, il quale però si dovette portare appresso la sua maledizione per tutta la vita. Chi possiede quest’unghia può considerarsi – a contrario di quello che si è indotti a pensare udendo ciò che ho appena detto – molto fortunato. Posso affermare che è vero.”
    E’ vero sì, altrimenti non sarei qui a scriverlo.

mercoledì 14 marzo 2012

TORTELLINO

"Tortellino" è un racconto del 1999 se non erro. La passione giovanile per Edgar Allan Poe e Stephen King si dovrebbe notare tra le righe di questa storia di sangue e vendetta. Godetevela se vi va.


La storia che sto per raccontarti ora, della quale sono stato testimone “obbligato”, sembra uscita direttamente da un film dell’orrore, ma ogni singolo fatto che avviene in essa è pura, raccapricciante realtà. La racconto esclusivamente a te perché sono certo che non svelerai mai a nessuno il contenuto di questa missiva: se ti conosco bene come credo, ho questa sicurezza.
    E’ molto probabile che anche tu mi conosca: sono Gilberto Biagi e vivo nello stesso ameno paesello di campagna dove tu sei cresciuto e dove a lungo hai abitato prima di diventare un affermato scrittore fuori da qualsiasi schema. Come presumo tu sappia, di mestiere faccio il coltivatore diretto: sono un contadino, come amo ancora definirmi orgogliosamente. Io e la mia famiglia – moglie e tre figli di tre, sei e otto anni – possediamo un piccolo podere a ridosso degli argini del fiume Terno e la nostra casetta, ivi costruita, è piccola ma tanto accogliente. Tutti in paese ci vogliono bene. Generosità e disponibilità sono doti che io e mia moglie Fiammetta andiamo fieri di possedere.
    Ora, io non sono molto bravo a scrivere; sì e no avrò letto una decina di libri in vita mia (tra i quali due dei tuoi!), ma questa storia mio carissimo e inconsapevole pigmalione, deve essere assolutamente raccontata, anche perché i media e il processo che seguì al famosissimo caso dei cinque ragazzi di Cargi scomparsi (dove sono stato chiamato a deporre), non hanno mai fatto luce sulla vicenda e questo lo sai bene anche tu.
    Veniamo ai fatti. Il venticinque giugno dell’anno scorso ero solo in casa. Fiammetta e i miei figlioli Luca, Lia e Leika, si erano recati in paese per fare delle compere. In un raro momento di relax giornaliero stavo guardando la televisione, quando udii bussare alla porta. Andai ad aprire e mi trovai di fronte la facciona tonda e imporporata di Pino Pulga, il mio vicino di casa. Notai subito il suo sguardo fermo e deciso, ma prima di raccontarti ciò che accadde un istante dopo, voglio spiegarti bene chi è Pino Pulga e perché il suo folle gesto mi scosse per sempre dalla mia adorata monotonia quotidiana.
    Forse pure tu conoscerai qualche particolare della vita di Pino, detto Tortellino a causa del suo pantagruelico appetito, però io ti farò luce sulla vera storia del mio amico. Amico? Più che amico: un’amicizia fraterna ci legava sin dall’infanzia; la sua giovinezza era filata via insieme alla mia senza grossi scossoni, almeno per quel che mi risulta. La nostra più grande differenza stava nel fatto che lui odiava il clima moralista , ipocrita e buonista di Cargi, a sua detta paese troppo soffocato dall’afa cattolica dei suoi abitanti. Io invece sono sempre stato un buon cristiano praticante senza che ciò interferisse nel nostro rapporto: io rispettavo lui e lui rispettava me, soprattutto perché non mi includeva nella categoria di persone sopra citate.
    Si era sposato due anni prima che mi sposassi io, ma qualche settimana prima del giorno delle mie nozze con Fiammetta, la moglie di Pino morì in un incidente stradale alle porte del paese: era incinta di tre mesi come ricorderai forse dalle cronache regionali e nazionali del tempo. Neppure io lo sapevo. Il povero Tortellino uscì distrutto da quel dramma e dopo aver mascherato con immenso sforzo il suo dolore, partecipò al nostro matrimonio, poi, conclusasi la cerimonia sparì nel nulla.
    Non ebbi sue notizie, come del resto l’intera nostra comunità (non aveva neppure parenti in vita), per circa sei mesi. All’improvviso eccolo riapparire di nuovo: era dimagrito almeno dieci chili e i suoi ispidi capelli neri erano ora brizzolati; la sua carnagione mi sembrava molto più olivastra di quanto ricordassi. Pareva un’altra persona. O forse, più semplicemente, era un’altra persona.
    Durante la sua assenza  gli avevo curato l’orto e badato la casa; mi ringraziò calorosamente per questo ma non mi volle dire cosa aveva combinato in quei sei mesi. E nessuno lo seppe mai, tanto che le congetture più assurde e fantasiose si alimentavano quotidianamente nella piazza di Cargi.
    Tortellino tornò alla sua vita di sempre nei campi, con la solita dedizione e sacrificio. Aveva cambiato solo l’abitudine serale del bar e della briscola tra amici: in effetti non usciva mai in paese se non una volta alla settimana per fare qualche spesa. Io lo invitavo spesso a cena a casa nostra, ma lui rifiutava sempre garbatamente. Si era chiuso in un mutismo cupo, da cui nulla pareva destarlo. Nessuno avrebbe riconosciuto in Pino il burbero ciarlone che era una volta. Visse così, in mesta solitudine per circa dieci anni.
   Ed eccoci al venticinque giugno. Aperta la porta mi vidi puntare contro il fucile a canne mozze di Tortellino: “Seguimi senza tante storie” mi disse in tono minaccioso. Ovviamente eseguii i suoi ordini nonostante la sorpresa e l’angoscia mi paralizzassero. In assoluto silenzio mi condusse nella sua stalla e qui mi legò le mani ad un vecchio giogo appeso al muro, poi con voce cordiale, quasi addolcita d’incanto, mi disse: “Non ti preoccupare caro Berto, non ti accadrà nulla. Ora assisterai al processo, allo spettacolo della morte che entra in scena per recitare atti di giustizia.”
    Davanti a me si ergeva una specie di rozzo teatrino, costruito probabilmente in poche ore da Pino non molto tempo prima, dato che il giorno antecedente, passando accanto alla stalla non avevo notato nulla.
    Si aprì il sipario (un lungo lenzuolo rosso appeso ad una trave) ed io sgranai gli occhi: cinque ragazzi erano legati ed imbavagliati su altrettante sedie sistemate sopra un tappeto di nylon. Impiegai diversi secondi per capire che erano cinque giovani del paese, tutti figli o parenti di persone che conosco (e credo pure tu) molto bene, gente di chiesa che incontravo tutte le domeniche nella Casa del Signore e con la quale mi intrattenevo spesso a chiacchierare di cose più o meno futili. Come sai bene quei ragazzi erano: Giacomo Lenzi, di ventinove anni, figlio del diacono Giovannino Lenzi; Guido Fabbri, di venticinque anni, figlio del sacrestano Paolo Fabbri; Samuele e Primo Tassi, di venticinque e ventisette anni, nipoti di don Gino Tassi; Roberto Zaccarini, di ventisette anni, figlio della perpetua Ilenia Boselli.
    “Ti prego Pino, non fare pazzie! Cosa vuoi fare a questi ragazzi?” lo implorai.
    “Prima di eseguire la condanna, voglio raccontarti una storia…”
   Mi fece così luce sul suo dramma e sulla “latitanza” iniziata dopo la morte della moglie. La notte dell’incidente, un amico di quegli stessi cinque ragazzi (ricordi Marco Cappato, il figlio del gommista?) che vedevo ora terrorizzati davanti a me, si era recato da Pino e gli aveva rivelato che i suoi amici avevano scagliato una grossa pietra giù dal ponte di San Rocco, sito poco fuori Cargi, e avevano centrato in pieno il parabrezza dell’auto su cui viaggiava la consorte del Pulga. La donna, che andava a forte velocità, si schiantò contro il muro di recinzione di una villetta disintegrando completamente la vettura. Siccome la pietra non venne rinvenuta e nessun testimone aveva assistito al sinistro, i carabinieri archiviarono la pratica e Maria Cappellari in Pulga risultò deceduta per incidente automobilistico causato da un presunto colpo di sonno e dall’alta velocità.
    Marco raccontò a Tortellino di aver cercato di impedire il folle gesto ma una volta centrato il bersaglio era stato seriamente minacciato di non aprire bocca sull’accaduto. Disse anche che dopo la disgrazia i cinque giovani se ne erano andati felici e chiassosi a festeggiare l’impresa in un pub non lontano. Il Cappato se ne era tornato a casa sconvolto e alcune ore dopo sarebbe andato a far visita allo straziato Pino, il quale lo pregò di non rivelare a nessun altro ciò che gli aveva appena confidato: nella sua mente e nel suo cuore in quel momento si era spezzato qualcosa. Ricevute le dovute garanzie, Tortellino attese impazientemente il giorno del mio matrimonio, dopodiché fece i bagagli e partì, così, senza meta per le strade italiane. Covando la sua vendetta si stabilì per un mese ad Ortona, in casa di un amico di vecchia data con il quale aveva fatto il militare anni addietro; si trasferì poi a Gaeta, non so bene per quale motivo, ma qui - i casi della vita! - vinse tre miliardi al Totocalcio. Questo fatto lo portò inevitabilmente a rivalutare alcuni aspetti della sua vita futura. Decise così di starsene lontano da casa ancora qualche mese; in tal modo il suo piano avrebbe avuto il tempo di essere meticolosamente perfezionato. Andò in Francia, a Marsiglia, dove stette per altri due mesi ospitato da parenti della defunta moglie, poi via di nuovo, questa volta destinazione Messico. Quando rientrò a Cargi, il suo diabolico disegno era perfettamente delineato nella sua mente di uomo provato.
    Dieci anni ci vollero prima che mettesse in atto il suo progetto; non aveva fretta, lasciava che la vendetta covasse sotto la cenere del suo cuore bruciato. Alcuni anni prima aveva tentato di mettere in pratica la ferale serie di alchimie cerebrali propedeutiche alla riuscita del suo scopo, però non si erano verificate le condizioni favorevoli. Poi, eccoci al momento della resa dei conti: i cinque amici abboccarono tutti alla storia che Tortellino fece raccontare loro da Marco Cappato, precedentemente “ricompensato” con un centinaio di milioni della super vincita al Totocalcio.
    “Ragazzi, la casa di Tortellino è momentaneamente incustodita. Lui è lontano da casa per motivi di salute e… beh, si dice in giro che abbia oro e preziosi per miliardi  sparsi là dentro.” Così riferì Marco e tutti e cinque gli inseparabili compagni abboccarono all’amo del mortal destino.      Quando quella sera entrarono nella casa “incustodita” del mio amico, si ritrovarono come il giorno dopo mi trovai io, con il fucile puntato contro. Pino li costrinse a bere del sonnifero per non avere problemi nel legarli ed eccoli tutti lì in fila, svegli e impauriti come non mai.
    “Ma perché vuoi farmi vedere tutto questo Pino? Perché proprio a me?” E se tornassero mia moglie e i miei figli?” dissi io.
    “Tua moglie e i bambini non rincasano mai prima di mezzogiorno durante l’estate ed ora sono appena le dieci e quindici. Per quanto riguarda te amico mio, è proprio perché ti voglio bene se sto cercando di aprirti gli occhi.”
    “Che vuoi dire? E se decidessi di riferire tutto alla polizia? Tu… tu sei pazzo! Stai per commettere un crimine spaventoso!”
    Seguì una lunga pausa. Riprese: “No Berto, non racconterai niente a nessuno. Quando ti avrò liberato, tu sarai dalla mia parte. Sarai anche tu un uomo diverso.”
    Lo osservavo allibito. Sentivo la gola secca e stavo probabilmente cercando di fare un ultimo tentativo per farlo desistere dal suo intento quando pose fine alla discussione. Il verdetto ormai era stato emesso: “Chiunque creda nella giustizia terrena o celeste è solo un fesso. Questa è la nemesi storica che distrugge il frutto marcio di un albero putrescente. Questa è la vera giustizia.” Dichiarò questo, dopodiché infilò una specie di toga da giudice, afferrò un machete affilatissimo e diede inizio alla mattanza. Enunciato in tono solenne il nome, l’età e il grado di parentela che legava ogni singolo ragazzo al già citato padre, madre o zio, mozzò loro la testa uno ad uno, in una escalation adrenalinica di accecante delirio.
    Stranamente non provavo ribrezzo nel vedere tutto quell’orrore. Mi vennero in mente le parole pronunciate da Tortellino poco prima: “Quando ti avrò liberato, tu sarai dalla mia parte. Sarai anche tu un uomo diverso.” Stentavo a crederci; non potevo essere io, Gilberto Biagi, cristiano praticante, buon padre di famiglia e lavoratore indefesso quel mostro che quasi provava un senso di sollievo nell’assistere a quel massacro. Eppure…
    Pino avvolse i cadaveri nel nylon, li caricò sul suo furgoncino e dopo avermi liberato si scusò per come mi aveva trattato. Mentre mi parlava mi scrutava con sguardo ipnotico, al quale io non seppi reagire se non per dire con voce fievole “ci vediamo”. Andò a murare quei corpi e quelle teste tagliate nel cemento che avrebbe fatto da fondamenta alla villetta che stava costruendo a Pive, non lontano da Cargi.
    Rientrato in casa dalla stalla dell’amico quella mattina, fu solo allora che mi resi realmente conto di ciò che era accaduto. Quei ragazzi erano tutti figli o nipoti di gente religiosissima che come il sottoscritto aveva intravisto nella Chiesa e in Gesù nostro Signore la strada giusta per garantirsi la felicità terrena e l’eternità celeste, purtroppo però non avevano fatto i conti con la dannazione dei loro giovani, nonostante i loro rigidi e un po’ bigotti canoni educativi avrebbero voluto imporre ben altri insegnamenti. Quando rincasò mia moglie decisi di non dir nulla sull’accaduto: tra me e Tortellino, non so come e perché, in quella stalla si era creato un tacito accordo di collaborazione.
    Alcuni giorni dopo la scomparsa dei cinque giovani, le indagini della polizia (non riesco a spiegarmi come possano aver fatto!) si incanalarono proprio nella direzione di Pino, ma al processo durante la mia testimonianza lo scagionai affermando che la notte in cui erano spariti i ragazzi, egli era in casa sua in compagnia dello spirito della moglie e del frutto che portava in grembo. E devo aggiungere che durante le varie udienze, la disperazione di quei parenti distrutti dal dolore non ha mai minimamente impietosito il mio cuore.
    Il mistero della sparizione dei cinque giovani cargilesi è a tutt’oggi uno dei grandi casi insoluti della giustizia italiana; anche se – permettimi la considerazione – paradossalmente, non poteva esserci giustizia più equa di quella esercitata da Pino. Dopo tutto non ha fatto altro che liberare il mondo da cinque parassiti e l’estate prossima io e la mia ignara famiglia , andremo a trovarlo allo “Scalpo” di Acapulco, il ristorante sull’oceano che ha aperto da poco, dove potremo gustarci le specialità italiane e messicane tornando finalmente a sorridere sul futuro che ci attende.

                                                                                                                                        Cordiali saluti,
                                                                                                                                        Un ammiratore


RISPOSTA ALLA LETTERA DI GILBERTO BIAGI

Che Iddio ti benedica!!!