Quattordici anni fa nasceva questo racconto, racconto che ha tutti i difetti del mondo ma non si può certo dire che non sia spontaneo e non rappresenti uno... spaccato di vita, in tutti i sensi. Il titolo (il nome della protagonista) è stato cambiato dopo la sentenza del foro di Bilbao del 14 maggio 2009.
L’UNGHIA DI BEGONIA
Benidorm doveva essere la meta di una vacanza da sballo,
di quelle da rievocare negli anni come la madre di tutte le ferie, il
nonplusultra del divertimento, un’avventura da raccontare agli amici per far
loro invidia e farli pisciare addosso dalle risate non appena ne avessimo
sviscerato gli aneddoti più gustosi e persino i più insignificanti. Beh… così
non fu. Ci sorbimmo ventuno ore di pullman solo per il viaggio di andata, ma
questo è niente, eravamo preparati; pensavamo che ne sarebbe valsa comunque la
pena. Non appena giungemmo a destinazione però, venimmo accolti da una sorpresa
niente affatto simpatica: il nostro appartamento – prenotato con le migliori
garanzie da parte dell’agenzia viaggi – era un sordido tugurio al decimo piano
di un fatiscente palazzo privo di ascensore, ubicato in uno squallidissimo
quartiere a cinquecento metri da una lurida spiaggia ispanica.
“No problem!”
dissi io per ringalluzzire l’animo sfiancato dallo sbigottimento e dalla
stanchezza dei miei compagni di ventura, “è ora di tirare fuori il nostro
spirito di adattamento. Fottiamocene e divertiamoci”.
Questo era
quello che pensavano anche loro, ma un secco “vaffanculo” saettato dalla bocca
di Isola mi convinse a tacere per un po’.
Eravamo partiti
in quattro: io, Isola, Tano e il Cipputo. Tornammo a casa in due, nel senso che
Isola e il Cipputo infarcirono talmente tanto i loro corpi con alcol e droghe
che quando rientrammo in Italia, impiegarono due settimane per snebbiare la
mente e riassumere una sia pur minima parvenza umana. Per quanto riguarda Tano,
non fu di grande compagnia; infatti due giorni dopo il nostro arrivo in Spagna
conobbe un ricco pederasta francese e passò quelle due settimane sullo yacht di
Pierre Cocteau (detto il Marchese) tra effeminati giovincelli e glabri nonché
nerboruti ragazzi in cerca di amore omo. Io trascorsi la prima settimana
nell’allegra combriccola del Cipputo e di Isola, mentre i rimanenti giorni
fluirono in uno stato di ascesi dove mi ritrovai a contemplare quella
sconvolgente prima settimana. Se mai nella vita di un uomo si può parlare di
punto di svolta drastico, io svoltai drasticamente proprio allora.
Maria Giovanna,
coca, hascisc, ecstasy, lsd, e chi più ne ha più ne metta; ci stavamo talmente
appassionando al culto della droga che non uscivamo quasi più di casa. Eravamo
curiosi di provare ogni tipo si sensazione addotta dalle sostanze stupefacenti.
Per sei giorni non vedemmo né mare né sole, vivevamo di notte tra discoteche,
rave party e locali di tendenza: qui mettevamo in pratica gli esiti e gli
effetti del nostro hobby quotidiano. Fu proprio una di quelle sere che conobbi,
al famoso Eku’s di Benidorm, Begonia, giovin pulzella di origine basca dalle
forme sinuose e dal tenero visetto.
Come ero fatto
quella sera non lo sono mai stato, né mai lo sarò più – ne sono certo – in vita
mia; ad ogni modo, non ricordo come, feci colpo sulla spagnoletta e la invitai
al bancone del bar a bere qualcosa. Dopodiché seguii il classico rituale del
giovane arrapato bramoso di sorcetta umida: piantai la lingua in bocca a
Begonia e la invitai nel nostro appartamento. Non ci fu problema: già
pregustava – come me d’altronde – le gioie del sesso, così prendemmo un taxi e
via, destinazione Avenida de Mierda, vicino a Plaza de Schifo. Quando arrivammo
su al decimo piano, la ragazza mi sembrava in splendida forma e ancor più bella
di quando l’avevo conosciuta un paio di ore prima. Tutti quei piani saliti a
piedi però mi accompagnarono boccheggiante alla meta e per riprendermi andai in
bagno a tirare un po’ di coca della scorta personale di Isola. Ne uscii come
nuovo e zompai letteralmente addosso alla chiquita. Ci spogliammo l’un l’altra
e quando fummo nudi e crudi le infilai la mia bella nerchia pulsante su per quel
soffice orifizio peloso che era la sua figa; ebbe un fremito di piacere
accompagnato da un lungo sospiro, purtroppo però ero talmente eccitato che me
ne venni quasi subito, lasciandola inappagata.
“Excusame mucho”
esclamai, “vado un momentito in bagno, e quando torno te inforco fino a
romperte la fregna. Comprende?”
Questa mi faceva
di sì con la testa ma di sicuro non aveva capito nada. Comunque, vado in bagno
a riassestarmi: cinquanta mila di benzina por favor… snifff… snifff e vamos;
torno in camera e cosa vedo? Begonia a gambe aperte che si stava sparando un
ditalino e gemeva, oh come gemeva quella troietta lussuriosa! Dissi: “Che Iddio
abbia pietà di te!”. Era giunto il mio momento, Gigi era tornato in splendida
forma, mi sentivo un leone pronto ad avventarsi sulla preda inerme. Dopo un po’
di preliminari penetrai la purchiacchella per il secondo giro e, beh, questa
volta… tuoni e fulmini: la montai inizialmente nella posizione classica del
missionario, poi la misi a pecora, infine fu lei a posizionarmisi sopra e qui
venne tra spasmi violenti e grida da bovara. Io ne avevo ancora così decisi di
metterglielo nel culo; a lei non dispiacque e un altro forte orgasmo la
travolse. La mandai più volte in estasi poi anch’io me ne venni tra le sue belle
chiappe sode. Quando chiusi gli occhi per rilassarmi pensai di avere appena
terminato la più formidabile chiavata della mia vita.
***
Alle nove di mattina io e Begonia venimmo svegliati da
Isola e dal Cipputo che rincasavano provenienti dal loro paese dei balocchi.
Dopo averla un
po’ palpata Isola svegliò la ragazza che, imbarazzatissima, si rivestì senza
aprire bocca; la salutai dandole appuntamento per quella sera stessa sempre
all’Eku’s poi la congedai con un bacio. Vedevo tutto annebbiato e tornai
immediatamente a letto, constatando che i Fratelli Tossici, come li avevo
soprannominati io, erano già belli stesi. Dormivamo in un'unica stanzetta: io
nel letto matrimoniale con il Cipputo mentre Isola aveva occupato il piano
inferiore del letto a castello, il cui coinquilino doveva essere Tano. Ma
chissà che letti frequentava lui la notte.
Verso le cinque
del pomeriggio mi svegliai con l’odore del caffè che stava preparando Isola. Il
Cipputo fumava una canna sul terrazzo e quando mi vide mi offrì un giro ma
rifiutai perché avevo la testa che mi scoppiava. Bevvi il caffè mentre
osservavo los amigos che con perseveranza
davano inizio all’ennesimo drug party. Oltre alla testa mi doleva anche
lo stomaco, per cui mi ridistesi nuovamente sul letto dopo aver ingoiato un
paio d’aspirine.
A mezzanotte e
trenta circa, il Cipputo e Isola mi svegliarono: era ora di andare alla
“carica”. Io non stavo benissimo ma mi ero almeno ripreso dal mal di testa e di
stomaco; fu così che me ne uscii per la prima volta dall’inizio di queste
vacanze lucido e sobrio. Rifiutai pure un pastiglino di non so cosa che mi
passò Isola dicendo: “Grazie ragazzi, ma oggi time out. Penso che rientrerò
domani nella Toxic Company.”
Quando arrivammo
all’ Eku’s, i miei amici partirono in quarta alla ricerca di “carne” fresca da
mettere sulla graticola della loro ardente euforia sessuale, mentre io,
leggermente sofferente e un tantino abbacchiato mi sedetti su un divanetto
sorseggiando un’aranciata amara. Ero lì che osservavo Isola darci di lingua con
una quarantenne svedese quando mi resi conto di non ricordare assolutamente il
volto di Begonia; nonostante mi sforzassi non riuscivo a focalizzare la sua
fisionomia. Un fatto mi distolse da questi pensieri: una tipa grassoccia,
butterata, con dei capelli unti e una pelle lucida da fare schifo si mise a
sedere al mio fianco.
“Hola! Como
estas?” mi dice.
“Bien!” rispondo
io distrattamente.
Passano pochi
attimi e connetto tutto: è Begonia. Come ho potuto portarmi a letto un cesso di
figa come quello? Quanta merda ho ingerito e inalato per intravedere anche solo
un leggero barlume di fascino o bellezza in quell’aborto d’una putrida fregna?
Deglutii saliva più volte, inorridendo palesemente al primo tentativo che fece
di baciarmi; scansai quelle labbra grottesche con agilità, poi in uno spagnolo
stentato cercai di spiegarle che non stavo bene e che avevo intenzione di
tornare subito all’appartamento. Lei sembrò rattristarsi a questa notizia ma…
fanculo!, io me la diedi a gambe. Senza neppure avvertire Isola e il Cipputo,
corsi a prendere un taxi.
Ero in casa da
un’ora, sul terrazzo dell’appartamento a godermi la leggera brezza notturna e
la splendente luna quando bussarono alla porta. Andai ad aprire un po’
infastidito per essere stato interrotto in quel piacevole momento contemplativo
e chi mi trovai di fronte? Begonia. Aveva con sé un paio di bottiglie di
vinello rosso di San Sebastian e un consistente pezzo di hascisc
pakistano. Essendo io una persona all’occorrenza abbastanza gentile e
disponibile la feci accomodare; neanche il tempo di togliersi quell’orribile
giacca kitsch che indossava che questa sgraziata creatura aveva già stappato la
prima bottiglia. Non avevo nessuna intenzione di bere, ma quando mi resi conto
che era l’unico modo per affrontare una situazione del genere, mi scolai tutto il vino che aveva portato nel giro di un’oretta. Finito che ebbi
l’ultimo bicchiere, Begonia cominciò a gingillarsi con il mio Gigi e da quel
momento non vidi più Begonia, non c’era più nessun barilotto nauseabondo
davanti a me; c’era solo un buco nero, una foresta magica e rigogliosa, una
Medusa che cercava di ipnotizzarmi il cervello e pietrificarmi l’uccello: ci
riusciva benissimo.
***
Alle sette della mattina mi svegliai. Begonia era lì al
mio fianco e ora, alla luce del giorno e con il cervello terso e connesso,
risaltava in tutta la sua bruttezza. La osservai attentamente e… la annusai
attentamente: come cazzo fa una persona appartenente alla specie umana a
puzzare così tanto?! E soprattutto, come può uno come me scoparsi una cosa del genere? Provai un certo
malessere mentre passavo lo sguardo sui suoi capelli, poi sui fianchi pienotti,
sul sedere grassoccio, le cosce, i piedi… aaaaaah, mamma mia! Questa non aveva
dei piedi, aveva un paio di zampe in necrosi purulento-degenerativa, due
cimiteri profanati dal Dio Putrido. Sgranai gli occhi non riuscendo a credere a
ciò che avevo davanti: nel piede destro, su cinque unghie, tre erano nere di
sporcizia, una era avvolta da un cerotto e un’altra ancora era nera
probabilmente perché schiacciata. Idem per il piede sinistro, con l’unica
differenza che aveva un dito, l’alluce, ancora vergine e incontaminato. E che
tanfo! Andai in bagno e vomitai.
Sciacquandomi la
faccia sotto il getto ghiacciato del rubinetto, pensai che se i miei amici (il
Cipputo e Isola in stato di sobrietà per intenderci) si rendessero conto chi,
anzi cosa mi sono chiavato, verrei sfottuto per il resto dei miei giorni.
Influenzato da
quest’ultima gaia possibilità, mentre Begonia ancora dormiva mi baluginò in
testa un’idea che colsi nella sua estemporaneità; presi la Canon che ancora non avevo
tirato fuori dalla valigia e cominciai a fotografarla, immortalando più che
altro quei due piedi che se non se li curava, un giorno quella povera ragazza
si sarebbe ritrovata con dei moncherini o con protesi artificiali. Con
l’autoscatto mi fotografai nelle posizioni più idiote: annusandole
(fingendo!!!) i piedi, il culo, le ascelle… Sì lo so che ero un demente
delirante in questa valle di lacrime, il problema era che non me ne rendevo
conto e non mi dispiaceva affatto esserlo.
Quando verso le
otto e trenta tornò a casa Isola con la sua svedesona (il Cipputo , come ho
appurato in seguito, era a farsi sbocchinare da una minorenne olandese), venni
come assalito da un raptus di follia isterica; svegliai Begonia a calci nel
culo e la trascinai fuori dalla porta nuda, tirandole dietro i vestiti.
“Hijo de puta!” mi
grida lei incazzata.
“Vai via
balenottera di merda, e non farti più vedere!” replico io mentre ero già sotto
la doccia a scrollarmi di dosso quell’alone di apocalisse, quella sensazione di
aver contratto la peste bubbonica che mi aveva lasciato quella passera
mefitica.
Lì, con l’acqua
gelida che scorreva su tutto il corpo e che mi arrecava un piacere quasi
orgiastico, sentii un grido proveniente dalla camera da letto. In procinto di
essere cavalcato dalla Ingrid, Isola si era conficcato l’unghia dell’alluce
marcio di Begonia nella chiappa sinistra. Mi precipitai in suo soccorso e gli
estrassi accuratamente l’arma letale dal sedere poi, quando stava ancora
imprecando, gli consigliai di andarsi a disinfettare se non voleva beccarsi il
tetano o una qualche forma sconosciuta di virus. Aiutato da Ingrid, l’amico andò
a detergersi la ferita in bagno dove poco dopo proseguì l’amplesso sulla tazza
del cesso.
In cucina stavo
analizzando quell’unghia quando… visione celeste, crisi dell’Io… non so bene
cosa mi accadde ma decisi che quel pezzetto disgustoso del piede di Begonia
sarebbe diventato un cimelio, un amuleto da conservare, da adorare; un
antisfiga, un portafortuna, insomma… la mia unghia custode. Dopo tutto mi aveva
insegnato una bella lezione, anzi più di una, che misi in pratica a partire da
quel giorno stesso: primo, basta con le droghe almeno quelle pesanti e in
quantità smisurata; secondo, avevo fatto beneficenza a una ragazza inguardabile
e potevo essere felice di aver fatto del bene, ma da allora in poi… solo
offerte in denaro; terzo, ho imparato che alla disgregazione cerebrale e morale
(la mia) e materiale (quella di Begonia) non ci sono limiti percepibili dai
diretti interessati quando si entra nella spirale che porta verso il fondo;
infine – ma questo l’ho imparato molto tempo dopo – io vedevo in Begonia una
diseredata, un relitto ambulante, giovane ragazza che giocava la disperata
partita contro la solitudine così come qualunque altra persona in grado di
decodificare i miei comportamenti e la mia personalità corrosa e corrotta dalla
precarietà esistenziale della vita stessa avrebbe visto che non valevo né più
né meno quello che valeva lei. C’era solo una differenza rilevante, e cioè che
probabilmente Begonia non aveva e non avrebbe mai avuto la possibilità di
condurre il gioco (sia bene inteso che non dico questo riferendomi al suo
aspetto esteriore, valuto bensì alcuni aspetti che mi suggeriscono che la
spagnola era una persona scialba), mentre io la capacità di comandare il mio
destino l’avevo avuta. Ma ho perso la partita.
***
A distanza di parecchi anni da quella vacanza in Costa
Blanca, non ricordo quasi più nulla di quei giorni. Gettai via persino il
rullino con le foto di Begonia prima ancora di tornare a casa e mai, mai ho
riso di quelle avventure.
Tano si è
stabilito in Thailandia a vivere nell’harem del Marchese e non ho più contatti
con lui da almeno tre anni. Il Cipputo fa continuamente la spola fra il carcere
ed una comunità per il recupero di tossici. Isola, beh lui è morto alcuni mesi
dopo il rientro da Benidorm: sua madre lo trovò nel bagno con la siringa ancora
penzolante dal braccio. La maledizione di Begonia non era stata esorcizzata con
il disinfettante e non lo aveva perdonato.
Allora si voleva
partire per spaccare il mondo; ci siamo spaccati noi stessi, trascinati nel
vortice del nulla, nel vuoto che avevamo dentro e che non riuscivamo a colmare
se non con “stupefacenti” giochi di prestigio. Come finì quella vacanza? Che
importa come finì. Basti sapere che quando il proprietario dell’appartamento ci
presentò il conto, noi lo saldammo senza sapere quanto alto era stato in realtà
il prezzo pagato alla nostra voglia di evasione.
Quando ancora
oggi osservo l’unghia di Begonia, che porto sempre al collo gelosamente
custodita all’interno di un ciondolo di cristallo appeso ad una catenina d’oro,
mi affiora alla mente il ricordo dei miei amici e i fantasmi della nostra
giovinezza si materializzano a inquietarmi l’anima.
“Che cos’è quella
schifezza che hai al collo?” mi chiedono spesso.
“E’ l’unghia di una Dea crudele” rispondo
io, “che venne uccisa dall’ancor più crudele ferocia di un essere umano, il
quale però si dovette portare appresso la sua maledizione per tutta la vita.
Chi possiede quest’unghia può considerarsi – a contrario di quello che si è
indotti a pensare udendo ciò che ho appena detto – molto fortunato. Posso
affermare che è vero.”
E’ vero sì,
altrimenti non sarei qui a scriverlo.